Sembra proprio che Donald Trump non sappia restar lontano dalle rogne. Nel bel mezzo della disputa commerciale (e valutaria) con la Cina, impegnato in un braccio di ferro con Turchia e Iran e sempre critico nei confronti dell'Unione europea, ora il presidente Usa si scaglia contro la Federal Reserve, aprendo un altro fronte caldo. I due rialzi dei tassi decisi dalla banca centrale sono già risultati indigesti alla Casa Bianca, ancor più preoccupata per le altre due strette in arrivo tra settembre e dicembre. Il tycoon, durante un evento, si sarebbe detto pentito di aver assegnato la poltrona di presidente della Fed a Jerome Powell. Suggeritogli dai suoi consiglieri perché gli «piaceva un basso costo del denaro», in realtà il repubblicano Powell non ha fatto altro che proseguire l'opera di normalizzazione avviata dal suo predecessore, Janet Yellen. Così, in un'intervista a Reuters, The Donald è uscito allo scoperto dicendosi «non esaltato» dalla strategia restrittiva dell'istituto di Washington, invitato a fare «ciò che è bene per il Paese». Ovvero, a non muovere più le leve dei tassi. Powell ha una ghiotta occasione per replicare: venerdì parlerà ai banchieri centrali radunati per il consueto summit di Jackson Hole. E in quell'occasione, potrebbe riaffermare l'assoluta indipendenza e autonomia della banca.
A quel punto, lo scontro salirebbe di livello. Il timore di Trump è che un aumento del costo del denaro finisca per rallentare l'espansione dell'economia Usa rendendo impossibile raggiungere l'obiettivo di un'espansione economica di almeno il 3% quest'anno. Nonostante la robusta crescita del Pil nel secondo trimestre (+4,1%), trainata dagli sgravi decisi della riforma fiscale, molti economisti non credono che un tale slancio sia sostenibile. Powell non pare tuttavia voler cambiare il ruolino di marcia sui tassi. La Fed è convinta che l'economia sia sufficientemente forte per reggere l'onda d'urto di un poker di rialzi, anche se la guerra dei dazi, soprattutto tra Usa e Cina, rappresenta un'incognita sull'andamento della congiuntura.
Uno studio della Fed di New York ha di fatto già bocciato le politiche protezionistiche di Trump, considerate inefficaci per riequilibrare il deficit commerciale americano. I negoziati tra Washington e Pechino, ripresi ieri dopo mesi, si concluderanno oggi. I cinesi non sono molti ottimisti sull'esito delle trattative («Non pensiamo che Trump sia disposto a scendere a compromessi», ha detto un funzionario). In caso di fumata nera, nel giro di qualche settimana gli Stati Uniti potrebbero introdurre ulteriori misure punitive su 200 miliardi di merci del Dragone.
Wall Street non pare però curarsene. Mentre l'affondo di Trump alla Fed ha riportato ieri l'euro sopra 1,15 dollari e dato un po' di respiro alla valute dei Paesi emergenti, l'S&P 500 ha toccato un nuovo record storico di 2.873,20 punti. Domani l'indice avrà collezionato la bellezza di 3.
453 giorni senza una flessione del 20% o superiore, ovvero il calo che caratterizza un mercato «orso». Il toro si è insomma stabilmente piazzato a Wall Street: da quando è arrivato, il 9 marzo 2009, non se n'è più andato. È il più lungo periodo rialzista nella storia della Borsa Usa.
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