Ottimista per contratto, il presidente Usa Joe Biden parla di «economia solida». Eppure la crescita americana appare sempre meno granitica, soggetta com'è da mesi alle pressioni esercitate dalla Federal Reserve per mezzo della leva dei tassi, e con le prime ombre di stagflazione che iniziano a intravvedersi. Il primo trimestre 2023 è scivolato via opaco, con un modesto aumento del Pil dell'1,1%, ben al di sotto delle attese, a segnalare una forte decelerazione rispetto al +2,6% del periodo ottobre-dicembre dello scorso anno.
È un cambio di passo da non sottovalutare, soprattutto se si posa la lente sulle cause che lo hanno determinato. Su tutte, una: il crollo delle scorte aziendali ha sottratto il 2,3% al Pil finendo per attenuare l'impatto positivo delle maggiori esportazioni e dei consumi in aumento. Magazzini pieni di articoli invenduti non sono infatti mai una buona cosa per i bilanci. E la mancata ricostituzione degli stock di merci è, in genere, la spia del pessimismo generalizzato tra gli imprenditori e la prima misura difensiva con cui si cerca di parare il colpo in arrivo di una contrazione delle spese private. Ancora robusta a gennaio, al punto da garantire una crescita trimestrale del 3,7%, la spesa degli americani ha infatti cominciato a battere in testa il mese scorso al crescere dei timori sulla tenuta del ciclo economico. Con i prossimi mesi il tirar di cinghia rischia di farsi ancora più pronunciato.
L'affievolirsi della crescita va di pari passo con un'inflazione ancora persistente, poiché il Price consumer expenditures (Pce) si è attestato al 4% (3,9% nell'ultimo quarter del '22) e il Pce core, l'indice più monitorato dalla Fed, si è attestato al 4,9%, ben al di sopra del 4,4% del trimestre precedente. Percentuali oltre le previsioni degli analisti che se, da un lato, accrescono le possibilità di un'ingresso dell'America nella palude della stagflazione, dall'altro dovrebbero corroborare le aspettative di un'ulteriore stretta in maggio da un quarto di punto, dopo quella decisa il mese scorso.
La riunione del 2-3 maggio cade in un momento ancora delicato per la banca centrale guidata da Jerome Powell. Le turbolenze nel settore del credito che avevano portato al fallimento Silicon Valley Bank e provocato la chiusura di di Signature Bank sono state tutt'altro che riassorbite. I recenti crolli in Borsa di First Republic Bank, alle prese con un complicato salvataggio e sfibrata dalla fuga dei correntisti costata 100 miliardi di dollari di depositi in un solo trimestre, dimostrano come Eccles Building sia costretta a vigilare e a muoversi con i piedi di piombo. La scelta di aumentare in marzo il costo del denaro dello 0,25% era stata dettata dalla volontà di contrastare il carovita, ma anche di non allarmare i mercati sulle condizioni del sistema bancario; fra meno di una settimana la Fed concederà un bis per gli stessi motivi, ignorando le richieste dei falchi per un intervento più deciso. Identico lo spartito pure in giugno, se la riluttanza delle banche nel concedere prestiti non avrà contribuito ad attenuare in modo significativo l'inflazione. Con l'estate, poi, si apriranno scenari al momento non facili da prevedere.
Powell è stato chiaro: la politica monetaria non subirà quest'anno inversioni di marcia. I mercati continuano però a non credergli e scommettono che il costo del denaro calerà in settembre attorno al 5 per cento. L'unico modo per evitare un atterraggio duro dell'economia.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.