Silvia Castello
Ha il segno di Proust la raffinata pittura della memoria di Giorgio Scalco presentata fino al 25 settembre al Complesso del Vittoriano. Interni con figure, splendidi still life e paesaggi sono esposti in unampia retrospettiva con 80 opere di perfetta qualità tecnica. «È la luce lelemento più ammirevole dei quadri di Scalco, quella luce che dà forma agli oggetti e racchiude tutto quasi come in un sogno o in una visione» scrive Rudolf Kober nel testo catalogo. Alla ricerca del tempo perduto è lincipit narrativo del pittore di Schio, tradotto alla luce dellelaborazione mentale del ricordo. Fino al 1960 lartista (1929) lavora come scenografo architetto a Cinecittà. In questo periodo, spiega Scalco, «pensavo già alla pittura, cercavo, affinavo il mestiere, costruivo il futuro di una pittura che mi assomigliasse». Si reca poi negli Stati Uniti dove inizia una collaborazione con Sam Swartz delle Guldhall Galleries di Chicago e studia il Realismo Americano. «Immaginando di trovarmi faccia faccia con il futuro, invece trovai pittori che dipingevano con grande mestiere e rispetto per la tradizione. Allora qualcosa in me si riaggiustò, guardavo più indietro che avanti - spiega lartista - frequentando i musei analizzavo le tecniche pittoriche e vedevo sotto il colore le arcane fondamenta del mistero, la dialettica del chiaro-scuro».
Lincontro con lestetica dellicona di Pavel Florenskij condurrà alla quadratura del cerchio lappassionata ricerca sulle tecniche pittoriche, come lesaltazione della pittura a tempera nei confronti di quella a olio che lo porterà anche ad intraprendere frequenti viaggi in Russia, dove nei monasteri Copti partecipa al restauro delle antiche icone.
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