Nairobi - Quattro anni in Africa, più di 1200 giorni passati a 6000 chilometri da casa. Elisa Terranova è nata nel 1980 nell’ultima propaggine dello Stivale, un balcone di terra che si protende verso l’Africa. E forse è già un segno del destino. Nel 2006 si laurea in psicologia con una tesi in etnoempatia. Una specializzazione sartoriale, sembra che gliela abbiano cucita addosso. “In parole povere ho fatto una ricerca su quanto si riesce a empatizzare con gruppi etnici diversi dal proprio”, spiega al cronista attonito. E il dubbio che la tesi l’abbiano confezionata per lei continua a lievitare. Pochi mesi dopo la laurea vuole mettere il suo “abito” alla prova e va in Tanzania a fare il servizio civile internazionale. Scoppia l’amore per l’Africa. Nessuno parla inglese ma lei, Elisa dalla provincia di Caltanisetta, impara lo Swahili. Torna in Italia per il tirocinio e invece che la malaria, come sarebbe successo a tutti i comuni mortali, si porta in Trinacria il mal d’Africa. La ragazza ha il senso del dovere, finisce il suo stage, e scappa nel continente nero. Devozione assoluta per la causa, abnegazione e forza di volontà. La incontro all’Alice Village, un piccolo paradiso a pochi chilometri da Nairobi, e mi sembra di vedere una giovane mamma di 150 piccoli orfani. Mescola sughi in marmitte gigantesche, dispensa carezze e bisbiglia dolci parole in lingua indigena appena un sorriso si inarca verso il basso. Guai a dirgli che è una monaca laica del volontariato, nicchia, finge di non capire e perde la pazienza. Ma forse siamo noi a non capire, per lei è tutto così normale… Anche stendere le magliette di una famiglia più numerosa di dieci squadre di calcio.
Come mai questa voglia d’Africa?
Dopo il mio anno in Tanzania sono tornata a Catania per fare un tirocinio nel reparto di oncologia pediatrica, fornivo assistenza psicologica ai bambini e alle loro famiglie. In quel periodo ho capito il senso della morte. Qui da noi è una cesura, una rottura totale. Non riusciamo ad accettarla. In Africa è una parte tollerata della vita, anche perché sono costretti a fare i conti con la morte quotidianamente. E’ un fenomeno naturale e comune, la speranza di vita è molto più bassa di quella europea.
E hai anche imparato lo swahili… Per forza, in Tanzania nessuno parla inglese. Ho fatto un corso di un mese e poi ho iniziato a esercitarmi. Dopo sei mesi riuscivo già ad avere una conversazione decente. Imparare la loro lingua è stato fondamentale, mi ha aiutato ad abbattere le loro resistenze e a entrare in confidenza. Se non lo avessi imparato non avrei mai potuto lavorare a contatto diretto con le famiglie africane.
Dopo la Tanzania c’è il Kenya, ormai una tua seconda patria. Sì, nel 2007 aderisco al servizio volontario europeo e vengo in Kenya, a Mukuru. Vado ad abitare in una casa vicino allo slum con una famiglia keniota che ancora oggi considero la mia seconda famiglia. Ci vediamo spesso e ci sentiamo al telefono, il rapporto non si è mai interrotto. Qualunque cosa succeda, so che loro per me ci sono.
E poi arriva Alice for Children.
Sì, mia sorella mi ha detto, dall’Italia, che aveva letto un annuncio per un lavoro a Nairobi, ho mandato il mio curriculum ed è iniziata questa avventura. Ho seguito tutta la nascita di questo villaggio e per me, anche dal punto di vista del curriculum, è un progetto molto importante.
E la tua famiglia italiana come ha preso questa vita africana? Malissimo, non sono mai riusciti a capire il perché di questa mia scelta. Ogni volta che vado a casa mi chiedono quando mi decido a tornare definitivamente in Italia.
Non hanno tutti i torti, non ti manca niente dell’Italia?
Ma certo, mi manca terribilmente non vedere crescere i miei nipoti e ho nostalgia della mia famiglia. Sento anche l’assenza degli amici più cari, quelli veri. Qui è difficile creare dei rapporti sinceri, i kenioti guardano molto al colore della pelle.
Sono razzisti al contrario?
In un certo senso sì. Qui c’è sempre il dubbio che diventino amici di un bianco per poterne ricavare un qualche vantaggio economico. E’ molto difficile costruire amicizie.
E quindi non ti viene voglia di tornare a casa?
Sì, ogni tanto mi capita di pensarci. Mi piacerebbe specializzarmi in psicologia giuridica, ma dovrei studiare altri quattro anni e prendere la specializzazione. Insomma se dovessi decidere di ricominciare tutto saprei già che strada imboccare.
Elisa, ormai sei un’esperta del settore, non ti sembra che il volontariato sia un aiuto minimo dato a un continente gigantesco: una goccia nel mare.
Io credo che non ci si possa riprendere solo con gli aiuti esterni.
Un po’ come la storia del pesce. E’ inutile regalare un pesce, molto meglio insegnare a pescare.
Esattamente, sempre la stessa storia. Non serve a nulla dare soldi se non si insegna a poter camminare sulle proprie gambe. Infatti mandiamo tutti i nostri bambini a scuola e per noi è fondamentale l’istruzione. Il problema è che un popolo che per secoli ha vissuto in schiavitù deve cambiare anche la mentalità per poter ripartire.
Insomma, anche tu sei pessimista…
Non proprio pessimista, spero che l’Occidente cambi approccio.
Grazie Elisa, ci vediamo la prossima volta. In Africa.
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