Quando pensiamo di avere tutte le risposte, la vita ti cambia tutte le domande. A volte, anche dopo un no, che non sempre ti aiuta a crescere come profetizza Asha Phillips, ma può modificare, in un attimo, le tue prospettive professionali e personali. Prendete il milanese Enrico Beruschi, classe 1941, uno che ha cominciato a fare seriamente cabaret perché nell'azienda in cui lavorava come ragioniere non gli avevano dato un aumento che pensava di meritare o che, dopo, aver raggiunto l'apice della notorietà con il televisivo Drive in è riuscito a reinventarsi una nuova carriera professionale sia nella lirica, sia abbracciando, a teatro e sulla stampa, il suo mito Guareschi, autore che nella vita è sempre andato, come lui, controcorrente. «Avevo meccanizzato l'azienda - ricorda Beruschi -. C'era gente che guadagnava il doppio del mio stipendio e non mi sembrava giusto». Da vicedirettore commerciale della Galbusera Biscotti a stella della televisione, mantenendo sempre quella faccia bonaria da «travet» del palcoscenico che l'ha fatto amare, per anni, da piccoli e grandi. Adesso, chi lascia un posto fisso per tentare la strada del successo artistico verrebbe preso per pazzo, ma allora, siamo nel 1974, era un modo per sentirsi vivi e fare la propria rivoluzione culturale. «Andare controcorrente è stato sempre il mio modo di vivere ed ogni decisione presa nella mia esistenza, giusta o sbagliata che fosse, l'ho fatta seguendo questa filosofia. Sarà per questo che amo particolarmente un personaggio fuori dagli schemi come Guareschi». Il passo, a differenza di quello che accade oggi, non è stato breve, con tanta gavetta nei locali milanesi, a partire dal mitico «Derby», che il ragioniere inizia a frequentare nel '72, su intuizione di Walter Valdi, dividendosi tra scrivania e palco. «Stavo andando a Saronno dalla morosa e, passando davanti al Derby, vedo che stavano cercando nuovi comici. Mi è venuto incontro Valdi dicendomi faccia de merda, duman te cumincet. All'inizio erano poche barzellette, ma poi, il 5 novembre, il mio nome è apparso per la prima volta sul cartellone. Ed è cambiata la mia vita artistica». Con un modo diverso di far ridere rispetto ai giorni nostri. «Quello che si vede ora in tv non è cabaret - osserva con amarezza Beruschi -. Gli assomiglia, ne prende il nome, ma non è quella roba che si faceva ai miei tempi. La satira è osservazione. D'accordo ridere, ma c'è un limite. Ora i comici pensano subito a voler far soldi, a guadagnare. Infatti, scompaiono dopo sei mesi. Mi verrebbe voglia di fare un Chi l'ha visto ? sulla satira».
È innegabile che dici Beruschi e subito pensi alla sua consacrazione a Drive in , la trasmissione che più di ogni altra ha cambiato, negli anni '80, il modo di fare comicità sul piccolo schermo, anche per quella sua particolare estetica che rappresentava al meglio l'esplosione e il potenziale della neonata televisione commerciale. Un vero cult, tanto da costringere i locali, la domenica sera, a mettere in fretta e furia il grande schermo, altrimenti i ragazzi non andavano a ballare, merito anche delle provocanti ragazze fast food dal seno prorompente, invenzione di Antonio Ricci. I suoi tormentoni e i suoi modi di intercalare erano dei veri cult. «E allloooraaa...», «Orologiao-ao-ao» oppure «È una brutta fazenda la mia vita con te, mangio solo banane, sono il tuo scimpanzè!», che declamava il suo Beruscao, il penultimo mandingo, in coppia con la torinese Margherita Fumero (l'amica di sempre), diventavano, l'indomani, litanie in bocca alle generazioni più giovani. Un mito anche per tanti mariti che finivano per ridere in maniera amara dei suoi sketch («Non fare l'eroe Enrico» gli dice la moglie con una pistola puntata alla testa. «Io fare l'eroe? Ma se in confronto a me Gianni Minà sembra Indiana Jones»), identificandosi con il suo personaggio tiranneggiato dalla (poco) dolce metà. «Fu Berlusconi in persona a prendermi, in un giorno particolare di novembre nel quale conobbi anche, al teatro Nuovo, Liza Minnelli. Mi fa: Ohè Enrico, hai visto che ho messo su un nuovo canale? Cosa aspetti ad essere dei nostri?. Non me lo sono fatto ripetere due volte». Un successo clamoroso, ma forse inaspettato anche per gli stessi protagonisti. «Non eravamo dei signori nessuno, ma, certamente, ognuno di noi aveva dei motivi di riscatto - confessa Beruschi -. Ci ritenevamo insoddisfatti di quello che stavamo facendo nelle nostre carriere. All'inizio, i dirigenti non volevano metterci in onda. Consideravano Drive in una trasmissione troppo strana. Per fortuna, prevalsero i giudizi del povero Bernasconi e, soprattutto, di Silvio Berlusconi che intuì subito il suo potenziale. Fu lui, ad esempio, ad avere l'idea di far cantare Carmen Russo nella sigla finale al posto mio. D'Angelo, invece, venne scelto anche perché si riteneva il mio personaggio troppo milanes . Tutti eravamo accomunati, nel programma, dalla gioia di farlo e dalle trovate più strampalate, ma vincenti».
Eppure, più di ogni altro dei protagonisti di quella fortunata stagione televisiva (si pensi solo a D'Angelo, Greggio o al povero Faletti), Beruschi sembra essersi eclissato dal grande pubblico. Ha toccato il cielo con un dito. E poi? «E poi ho commesso un errore, pensando ingenuamente che ci fosse un po' di riconoscenza per quello che avevo fatto. Col senno di poi, ho sbagliato a lasciare la trasmissione nell'86». Beruschi non ha smesso di essere artista, forte anche della sua capacità di spaziare e a leggere il suo curriculum dopo Drive in si resta a bocca aperta. Altro che scomparso. «Ho fatto, per un po', ancora televisione. Studio 5, Conto su di te, Emilio, Bellezze al bagno, Sabato al circo , ma non avevo più stimoli. Dovevo cambiare, voltare pagina. E sono ritornato al mio grande amore, il teatro. Dopo Arivivis , da me prodotto, arriva l'incontro con Pambieri e la Tanzi e il grande successo di Tre sull'altalena , cui segue, dal '94 al '96, lo strepitoso La cena dei cretini , sempre con Pambieri, che vinse il biglietto d'oro. Ho tentato anche di fare cose nuove, ma era difficilissimo. Non si trovavano i teatri e gli impresari dovevano far quadrare i conti». E qui, dopo cabaret, televisione, teatro, canzone (anche a Sanremo, con Sarà un fiore ) nasce la nuova carriera di Beruschi, uno che non ha mai perso il gusto di mettersi alla prova. «Devo tutto ad una intuizione di Massimo Scaglione che mi chiamò per la Giuditta di Franz Lehar. Non come cantante, ma per affidarmi il personaggio buffo che fa ridere negli ultimi due atti. Era una esecuzione scenica: cantanti senza costume con leggio e un particolare gioco di luci e di videoproiezioni per la scena. Io raccontavo l'opera. Una grande idea che oggi continuo a sviluppare perché penso questo potrebbe essere il futuro di questo genere artistico. La lirica, del resto, è una passione ereditata dalla mia famiglia».
E se volete, aggiungeteci anche una carriera da giornalista. «Ho imparato, da bambino, a leggere con Guareschi. Mi è congeniale, lo sento proprio dentro. Adesso, ho anche una rubrica sul nuovo Candido , affidatami proprio in virtù della mia grande passione per lui. La Salsa , ad esempio, l'ho trasformata, con successo, per il cabaret. Ora mi sono specializzato nelle letture pubbliche di Guareschi». E il figlio ha preso la sua strada.
Col nome d'arte di Aleister è fondatore e cantante del gruppo di Death Metal dei Faust, ma è anche regista, pur dovendo combattere con la difficoltà di veder realizzare i propri progetti. Tanti genitori avrebbero storto la bocca, ma Beruschi sa andare controcorrente anche come padre. «Bisogna consentire ai figli di fare le proprie scelte in autonomia. Ho ereditato questa buona abitudine da mio papà».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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