Black Mirror, videogiochi anni '80 e pirateria all’italiana: la storia che non ti hanno mai raccontato

Da Black Mirror a Jeff Minter, passando per le edicole italiane: negli anni '80 i videogiochi si copiavano tutti. Ecco perché in Italia non abbiamo mai davvero creato, ma solo "caricato"

Black Mirror, videogiochi anni '80 e pirateria all’italiana: la storia che non ti hanno mai raccontato
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Nella nuova stagione appena uscita di Black Mirror (tranquilli, non spoilero niente) c’è un episodio, Plaything, che racconta di un programmatore degli anni Ottanta che realizza un videogioco, Thronglets, e è ambientato nello stesso universo narrativo di Bandersnatch (era l’episodio interattivo dove lo spettatore decideva le scelte del protagonista). I thronglets sono piccole creature (una sorta di tamagotchi) di cui il giocatore deve prendersi cura, però sono una forma di biologia digitale vera e propria (nella fiction).

In generale nelle serie e nel film (come Ready Player One di Spielberg) siamo abituati a vedere programmatori degli anni Ottanta che realizzano videogiochi, da soli, perché negli anni Ottanta era così. Perfino il team dell’Activision era composto da poche persone, ma una singola persona poteva diventare ricca grazie a un videogioco di cui scriveva il codice (erano pochi kilobyte, non serviva un team di centinaia di persone come oggi). Però, chi ha vissuto gli anni Ottanta da adolescente, non ricorderà un italiano che abbia inventato un gioco, e qui c’è una storia interessante.

In Italia all’alba dei videogiochi e dei primi home computer (con la guerra tra Commodore 64 e Spectrum, soprattutto) i giochi si compravano in edicola, allegati a una rivista, e erano tutti copiati. È per questo che mi sono rivolto a Carlo Santagostino per chiedere delucidazioni: ingegnere informatico, storico dei videogiochi e dei computer, fondatore di Archeologia Informatica (splendido canale Yotutube), in quei primi anni Ottanta era un ragazzo prodigio: eravamo coetanei, e sulle riviste di computer che leggevo io, lui a dieci anni già ci scriveva. Mi spiega l’inghippo: non esisteva copyright sui giochi, per cui in edicola compravi la rivista con allegata la cassetta piena di videogiochi copiati (per chi fosse troppo giovane: i videogiochi si caricavano da normali musicassette, con un normale registratore, a parte il Commodore 64 che ne aveva uno suo).

Piccolo particolare: tra i videogiochi copiati dall’estero, si poteva anche inviare il proprio gioco, che veniva infilato nella lista di giochi piratati da caricare. Le riviste erano Program, Special Program, Games, Playgames (tutte edite dalla Sipe), e questa situazione durò dal 1983 fino al 1992, quando fecero una legge, finalmente.

Io mi ricordo di Jeff Minter (uno che potrebbe essere il protagonista di un episodio di Black Mirror) e dei suoi giochi, tra cui Attack of the Mutant Camels, del 1983. Carlo mi dice: «Ce ne sarebbero tanti da nominare. Jeff Minter iniziò facendo un clone di centipede per lo ZX81 ma lo ha pubblicato producendo lui una cassetta, che andava nei negozi, e fondando la Lamasoft. Diventò il suo lavoro. Sarebbe diventato anche il mio, ma in Italia era impossibile, per cui sono diventato un redattore che recensiva giochi anziché programmare giochi». In sostanza l’unica forma di distribuzione che aveva un ragazzo italiano come Minter in Italia era inviare il proprio gioco all’Arcadia Edizioni, per la rivista Load and Run, dove come da regola italiana trovavi sia videogiochi copiati sia inviati dai lettori. «Me ne pubblicarono due», dice Carlo, «con il primo mi dettero duecentocinquantamila lire, con il secondo trecento», e finiva lì.

Mi incuriosisce una cosa: ma negli altri paesi? «Il problema era la giurisdizione italiana, il nostro diritto: noi siamo civil law, gli anglosassoni common law. Nella common law anche in assenza di una legge specifica nel momento in cui dimostri che un’azienda ha copiato dei giochi viene riconosciuto. Quindi, nell’aerea grigia di un’assenza legislativa l’imprenditoria italiana sveglia, benché immorale, ha sfruttato il buco per guadagnarci». Ma negli altri paesi, quelli non anglosassoni? «Si sono sbrigati prima a fare una legge, perfino la Spagna e il Portogallo». Carlo mi dice anche una cosa a cui non avevo mai pensato: le sale giochi. Dove andavamo a giocare a Pac Man, a Donkey Kong, credevo almeno quelli fossero originali. Col cavolo. «Negli anni Ottanta non abbiamo mai giocato a un gioco originale in Italia. Te li ricordi i cabinati? Tutti uguali. Erano pronto scheda».

Morale della favola o favola della morale che non c’era: mentre oggi un episodio di Black Mirror ci fa riflettere si creature digitali senzienti e codici scritti in solitudine davanti a un computer, a noi italiani non resta che

ricordare quel suono gracchiante del registratore a cassette e accettare che mentre gli altri creavano universi, noi ce li copiavamo, sfruttavamo chi li creava, e ce li compravamo da un’edicola di fiducia come se niente fosse.

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