Propaganda woke, scrittura mediocre e grafica "cartoon": il disastro di "The Veilguard"

Il nuovo capitolo di "Dragon Age" è uscito dopo dieci anni. Molte le voci deluse, poche quelle completamente soddisfatte. E i numeri fanno pensare a un flop

Propaganda woke, scrittura mediocre e grafica "cartoon": il disastro di "The Veilguard"

Dopo dieci anni, un nuovo Dragon Age è arrivato sugli scaffali. Nel quarto capitolo dell’amata saga dark fantasy, The Veilguard, i giocatori sono chiamati a vestire i panni di Rook, l'eroe investito del compito di salvare il mondo dal ritorno di antiche divinità corrotte. Al suo fianco, un cast di sette compagni definiti “unici”, pronti a muoversi in “ambienti vivaci e variegati” e a diventare sempre più potenti attraverso una “profonda progressione Gdr”. Ebbene, com’è andato il grande ritorno della storica ip della BioWare? Stando ai numeri di Steam, molto male.

Il 31 ottobre, giorno dell’uscita, sono stati toccati i 70mila giocatori, con un picco di 89mila nel weekend successivo. Per una produzione tripla A, in cantiere da dieci anni, con un budget di parecchi milioni e con un nome di peso come Dragon Age, non riuscire a sfondare la barriera dei 100mila utenti è abbastanza grave. Facciamo un paragone, per forza impietoso, con Baldur’s Gate 3. Al lancio, il capolavoro di Larian ha registrato 470mila giocatori contemporanei. Una differenza abissale. È ovviamente ancora presto per affermare con certezza che The Veilguard sia stato un flop, ma questi dati non sono certo incoraggianti. E questo a dispetto delle recensioni degli utenti sulla piattaforma di Valve, il 74% delle quali sono positive.

Le ragioni di questa uscita tentennante sono molteplici e legate a numerosi aspetti, sia del gioco, sia della pubblicità che gli è stata fatta. Primo tra tutti, il suo prostrarsi completamente alla propaganda woke. Nella pagina Steam del gioco, il primo tag con cui The Veilguard viene classificato non è “Fantsy”, “Gdr” o altri che ci si potrebbe aspettare da una produzione del genere, bensì “LGBTQ+”. Questa decisione fa suonare qualche campanello d’allarme, diventati vere e proprie sirene una volta che gli utenti si sono immersi per qualche ora nell’ultima fatica di BioWare.

Molte opzioni di dialogo sono bloccate dietro alla decisione, da parte del giocatore, di far adottare al proprio personaggio “l’identità transgender”, nella personalizzazione del proprio avatar è possibile scegliere di avere sul petto le cicatrici dovute ad un’operazione per la rimozione del seno, vi sono dialoghi che sembrano usciti direttamente da college californiani ormai annegati nel mondo DEI e, ciliegina sulla torta, una scena diventata il simbolo della forzata introduzione di queste idee all’interno del gioco: uno dei personaggi del gruppo ne “misgendera” un altro e, per farsi perdonare, deve fare 10 flessioni e profondersi in una scusa molto articolata, dopo che gli è stato spiegato quale sia il modo migliore per farlo. Ricordiamo che la saga è sempre stata progressista e inclusiva, fin dal primo capitolo uscito nel 2009. Non era quindi necessario spingere così tanto su queste tematiche, a meno di una deliberata scelta politica o di un desiderio di riempire con la propaganda arcobaleno un gioco-contenitore che, altrimenti, sarebbe risultato vuoto.

E qui ci agganciamo a un secondo problema, segnalato anche da coloro che hanno lasciato voti positivi. Secondo moltissimi utenti, la scrittura di questo Dragon Age è al livello dei film della Marvel, che da questo punto di vista non hanno mai brillato. Dialoghi inutili e ripetitivi, compagni di avventura poco carismatici e che spiegano come risolvere i già semplici puzzle presenti nelle varie mappe non appena il protagonista vi si avvicina, un tono generale che sembra rivolto a bambini neanche particolarmente svegli e rapporti tra i personaggi che mancano completamente di conflitto o tensione. Un aspetto segnalato molteplici volte, infatti, è il comportamento immediatamente cordiale e amichevole tra tutti i compagni di Rook e lo stesso personaggio del giocatore, eliminando uno degli aspetti che hanno reso grande le passate produzioni di BioWare.

Strettamente connesso al problema della scrittura è quello del peso delle scelte. I fan di vecchia data della serie si sono infuriati quando è stato rivelato che solo tre delle decisioni prese nei giochi passati sarebbero state importate in The Veilguard. Un addio all’interconnessione tra le decisioni prese dai giocatori in tutti i capitoli della saga, che si riflettevano in modo più o meno evidente tra uno e l’altro. Oltre a questo, pare che nel nuovo Dragon Age non sia realmente possibile distanziarsi dalla via dell’eroe positivo, impedendo di fatto il roleplay di personaggi grigi o proprio malvagi, uno dei fiori all’occhiello dei vecchi capolavori della casa di Edmonton. Inoltre, almeno nelle prime ore di gioco, nessuna delle opzioni “aut, aut” messe di fronte al giocatore hanno delle vere e proprie conseguenze.

Per quanto riguarda la grafica, i paesaggi sono indubbiamente di bell’aspetto, ma per i personaggi è stato scelto uno stile “cartoonoso” e molto colorato ben diverso da quello sporco, sanguinolento, freddo e fangoso dei capitoli precedenti, soprattutto di Origin e più vicino alla sfera del dark fantasy. Il sistema di combattimento è più improntato all’action, con solo tre abilità attivate e due compagni al seguito, che non possono essere controllati direttamente. Per molti utenti e vecchi fan, entrambi passi indietro rispetto ai titoli precedenti della saga.

Dunque, cos’è questo The Veilguard? Secondo una fetta dell’utenza, non è né il quarto capitolo di Dragon Age, né Dragon Age proprio. Per altri è un soft reboot della saga che, molto probabilmente, non avrà altre uscite. Secondo altri ancora è solamente un titolo mediocre che sarebbe dovuto uscire dieci anni fa. Non ha completamente soddisfatto nessuno e ha deluso molti altri, anche coloro che avevano aspettative molto basse.

Avrebbe dovuto essere il titolo capace di salvare BioWare, ma potrebbe diventare la sua definitiva condanna a morte. E lo scriviamo con una punta di tristezza, perché la casa di Edmonton ha creato delle vere e proprie pietre miliari dell’arte videoludica. Quei giorni, però, sembrano ormai lontani e perduti.

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