Diciamo la verità: due cinesi morti - due di numero - e un centinaio di feriti in Vietnam, nel corso di violente manifestazioni di piazza, non fanno una grande notizia. Due morti e 100 feriti, a certe latitudini e in Paesi che formicolano di esseri umani, non troverebbero in genere neppure uno strapuntino a pagina 36 di alcun giornale del mondo se non suonassero, i morti e gli incendi e i gravi disordini di questi giorni, come un campanello d'allarme che segnala la profonda instabilità innescata nel sud est asiatico dallo strapotere del gigante cinese.
Le tensioni fra i due Paesi si sono aggravate dopo l'installazione, decisa da Pechino, di una piattaforma petrolifera al largo delle isole Paracelso, in una zona del Mar della Cina meridionale la cui sovranità è materia di scontro fra Cina e Vietnam. Che non sia una bagattella capace di rientrare in breve tempo, dopo una quindicina di vicendevoli inchini tra alti funzionari dei due Paesi è testimoniato, fra l'altro, dalla decisione della multinazionale che a Taiwan produce iPhone e iPad per conto di Apple, la Foxconn, di sospendere momentaneamente le sue attività in Vietnam per «garantire la sicurezza dei suoi dipendenti».
Il braccio di ferro tra le Marine dei due Paesi, e la tensione nazionalista che in Vietnam è sfociata pochi giorni fa nell'incendio di una quindicina di fabbriche di proprietà cinese nella zona industriale della capitale dicono, al contrario, di una crisi più profonda e più seria, capace di innescare un processo di destabilizzazione che se da un lato preoccupa Washington, potrebbe dall'altro favorirne gli interessi nell'area. Sono le dure condizioni di lavoro e i salari da fame pagati dai padroni del vapore cinesi ai coolies vietnamiti ad avere innescato le prime reazioni del popolino. Reazioni esacerbate dall'iniziale tentativo del governo di Hanoi di frenare la collera sociale usando il pugno di ferro e mettendo in carcere oltre 500 manifestanti. Ma questo è servito solo a far dilagare la protesta in tutto il Paese. E a mettere in luce le vere ragioni dell'instabilità nell'area.
Questioni di sovranità territoriale sono state all'origine, l'anno scorso, di un duro scontro fra Cina e Giappone. Materia del contendere, quella volta, un gruppo di scogli nel mar della Cina (le isole Senkaku). Un pretesto ridicolo che a un certo punto parve preludere a uno scontro militare in piena regola. E tuttavia, sia nel confronto col Giappone che con il Vietnam, in ballo non ci sono solo la sicurezza e il controllo delle rotte nel Mar Cinese o le presunte riserve petrolifere sottomarine. Il problema di fondo risiede nel gigantismo economico della Cina e nel terrificante sviluppo del suo apparato militare: un'accoppiata vincente che assegna alla Cina il ruolo di padrona assoluta dell'Asia. E agli altri Paesi che le fanno corona il ruolo di ancelle, e di mercati da sfruttare senza pietà. È questo scenario, secondo molti analisti, che spinge l'America a disimpegnarsi dall'Europa e dallo scacchiere mediorientale per concentrare le sue energie sul Pacifico.
Spalleggiare Giappone e Vietnam contro lo strapotere della Cina sembra destinato a diventare una riedizione in salsa asiatica del ruolo svolto in Europa dagli Usa nel secondo dopoguerra, quando si trattò di fare muro contro l'Orso sovietico. E tutto questo mentre dietro le quinte si prepara il grande confronto tra Pechino e l'altro gigante del continente: l'India. Il Big Game è solo all'inizio.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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