E questo è solo l'inizio

Due anni fa di questi giorni l'Egitto veniva descritto come il simbolo della Primavera Araba e d'una ventata di libertà destinata a cambiare il Medio Oriente. Due anni dopo l'Egitto è un Paese nel caos

Due anni fa di questi giorni l'Egitto veniva descritto come il simbolo della Primavera Araba e d'una ventata di libertà destinata a cambiare il Medio Oriente. Il Giornale era l'unico a non sottoscrivere la miope liturgia. A chi s'infiammava per la «rivoluzione di Facebook» ricordava come anche Khomeini usasse, a suo tempo, la novità delle audiocassette per diffondere il proprio verbo. A chi s'esaltava per i giovani di piazza Tahrir suggeriva di sbirciare dietro l'angolo dove si nascondeva il fondamentalismo dei Fratelli Musulmani. A chi confidava nella democrazia islamica e s'eccitava per la caduta di Hosni Mubarak proponeva di puntare su una transizione graduale appoggiata dall'esercito. Due anni dopo l'Egitto è un Paese nel caos. E il peggio deve ancora venire. La bomba che minaccia di consegnarlo al disordine permanente o ad un nuovo dittatore è la crisi economica, ignorata e negata dal presidente Mohammed Morsi e dai Fratelli Musulmani. I numeri della banca centrale sono da brivido. Dalla caduta di Mubarak ad oggi le riserve in valuta estera sono precipitate del 60 per cento. Di questo passo anche i 15 miliardi di dollari rimasti in cassa si volatizzeranno e l'Egitto sarà alla bancarotta. Intanto scontri e disordini distruggono il turismo, che ha già perso il 35% di viaggiatori europei. La crescita economica che con Mubarak registrava punte del 7% è ormai all' 1,8. La popolazione cresce allo stesso ritmo e dunque i risultati sono la stagnazione e l'aumento di una disoccupazione già ben oltre le cifre ufficiali del 25 per cento. Ma il peggio potrebbe causarlo un'inflazione capace - secondo la Banca Mondiale – di portare al 47 per cento quel 25 per cento di egiziani che già oggi vive sotto la soglia della povertà. A quel punto, come avverte da mesi il quotidiano indipendente Al Watan, il Paese rischierà una «rivoluzione furiosa» portata avanti non dai giovani di Facebook, ma dalle masse di disperati uscite dagli oltre 1200 slums egiziani. Gente che «non ha neppure l'acqua per lavarsi il viso la mattina e usa quella delle fogne che allaga le loro strade». A differenza dei rivoluzionari del 2011 quei disperati non inseguiranno nobili ideali, ma solamente la propria disperazione. Il loro unico slogan sarà - suggerisce El Watan - «io, io e all'inferno chiunque altro». Per salvarsi da quella rivolta l'Egitto può solo sperare nel prestito da 4,8 miliardi di dollari chiesto dal presidente Mohamed Morsi al Fondo Monetario Internazionale.

Resta da vedere se Christine Lagarde e i suoi siano disposti a fidarsi di un novello dittatore islamista preoccupato soltanto di nascondere la realtà, governare a colpi di decreti personali e imporre una Costituzione e un regime improntati alla Sharia.

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