Estranei in casa quando il nido diventa prigione

Le cronache di questi giorni ci hanno riempito gli occhi di orribili delitti compiuti tra il tinello e il salotto Che cosa spinge un padre a uccidere a martellate moglie e figlia? O una madre ad ammazzare il bimbo di sette anni per un litigio? Ragioniamo sul senso della vita per scoprire che spesso non ha senso

Propongo uno scenario. Cominciamo a immaginare una famiglia che nasce. Una famiglia qualunque. Perché si mette su famiglia? Così, succede. Il più delle volte è un atto preterintenzionale. Sarà la (sana) voglia di andarsene dalla casa dei genitori. Sarà che lei aspetta un bambino. Sarà che dopo anni di fidanzamento lei vuole rompere gli indugi. O che si ha voglia di provare. Allora ci si sposa, oppure non ci si sposa ma si va a vivere insieme.
Viene poi il primo bambino, qualcuno ne fa addirittura un secondo, alcuni pazzi arrivano a tre, a quattro. Fare figli è bello perché quando i bambini sono piccoli ti senti un re. Ti senti capace di proteggere quella piccola creatura - la sicurezza, sempre lei: tema obbligato in qualsiasi campagna elettorale: ma è nel caldo della casa che questo pensiero nasce e prende corpo.
Tuttavia, se la famiglia cresce, c’è anche qualcos’altro, là fuori, che cresce. Cresce il mondo. Il mondo è qualcosa che posso illudermi di possedere, dominare: non ho forse una Bmw?, non ho forse una barca lunga dodici metri?, non ho forse un’azienda in buona salute? L’illusione, però, è di breve respiro: basta un istante di riflessione per renderci conto che non dominiamo un bel niente.
Il mondo - al di là della contingenza più o meno favorevole - procede secondo leggi proprie, del tutto indifferenti a noi e ai nostri figli. La nostra fortuna può subire tracolli, possiamo ammalarci gravemente, un incidente stradale ci può levare di mezzo nel pieno del successo, e nessuno - vincesse anche al superenalotto - può garantire la sicurezza dei propri figli. Che ne sarà di loro?
Così la famiglia non appare più soltanto come il luogo della protezione e della sicurezza (familismo) ma anche e soprattutto il luogo in cui la vita può acquistare un senso. Il mondo, viceversa, non ha e non dà senso, se mai tende a togliere senso.
Già a questo punto della scena incontriamo un bel numero di pregiudizi in azione. Essi esistevano fin dall’inizio, solo che da ragazzi non ce ne rendevamo conto. Adesso sono tutti lì, pronti ad esplodere. I motivi del tracollo possono essere tanti, quasi sempre futili.
Le cronache di questi giorni ci hanno riempito gli occhi di orribili delitti familiari. Un padre di Arquata Scrivia uccide a martellate moglie e figlia (causa: depressione). Un altro padre, nel Catanese, uccide la convivente e il figlioletto nel giorno del battesimo del piccolo. In Friuli una madre uccide il figlio di sette anni in seguito a un banale diverbio. Nel Cosentino un uomo depresso per la disoccupazione uccide la moglie e la figlioletta di quattro anni, mentre nel Varesotto un anziano signore, dopo 43 anni di matrimonio felice e senza figli, accoltella e uccide la moglie. Sono solo alcuni dei fatti - accaduti tutti nel giro di un giorno - di cui la cronaca nera si occupa quotidianamente.
Quali che siano le cause scatenanti, una è la causa profonda: la scoperta, talora improvvisa, repentina come un colpo d’artiglio, che la vita è completamente priva di senso. Il senso, che avevamo cercato di opporre al mondo, era una pura illusione. Basta un dissesto finanziario, basta che i figli crescano, con l’inevitabile scoperta che essi sono diversi da noi, alla fine basta un diverbio qualunque, e il nostro edificio si sgretola.
E quella donna che ci sta a fianco, chi è? Credevamo di conoscerla, ci illudevamo di averla accettata solo perché le avevamo assegnato un ruolo? Non percepivamo la sua diversità in tutte quelle piccole frizioni che, a poco a poco, si sono trasformate in crepe, in fenditure? E lei, la donna, non si accorgerà prima o poi che il suo corpo non accetta ruoli?
Con eccessivo, giovanile trasporto la giornalista Anna Simone, di Liberazione, femminista dura e pura e grande lettrice di Michel Foucault, il celebre filosofo francese morto nel 1986, recensendo un libro si lancia contro la morale precettistica (che altro non è che un dispositivo di potere) che ha imprigionato il corpo femminile creando stereotipi falsi come quello dell’istinto materno. Il libro recensito s’intitola Madri cattive, io non l’ho letto, ma il tema è serio.
Spesso mi sveglio di notte in preda a una maligna lucidità, e guardando a me stesso vedo il mio totale fallimento. Scopro che tutto ciò che avevo sperato di ottenere dalla vita si è trasformato in un tran-tran, che non ho raggiunto nulla di ciò che speravo a vent’anni, che ho perso solo tempo, che ai miei figli non ho niente da offrire, e così via...
In quei momenti sono anch’io come un assassino. Allora mi alzo, apro un libro, leggo un po’, e a poco a poco il mondo rientra nel suo giusto alveo. La lucidità di prima era solo apparente, e anche se non ce l’ho fatta in tutto, rimane il fatto che io sono qualcosa.
Eppure per tanta gente - spesso benestante, spesso gente di successo - non è così: e il livello di guardia resta alto. Si passa dal familismo amorale e iperprotettivo al delirio di onnipotenza fino al crimine cieco, e in tutti e tre i casi noi assistiamo a una slogatura tra il nucleo della famiglia (dove l’affetto e i ruoli producono il senso) e il mondo, dove vige la legge della giungla.
Ma il mondo non è una giungla, non è un nemico dal quale dobbiamo proteggerci e proteggere i nostri cari. Il mondo sono i rapporti che noi intratteniamo con tutta la realtà: famiglia, lavoro, amici, tempo libero. E con noi stessi, perché noi non ci conosciamo fino in fondo: noi siamo un’ipotesi, una metafora (Novalis), e dobbiamo continuamente interpretarci (anche nel senso teatrale) perché siamo il terminale di qualcos’altro, anche se lo percepiamo confusamente.
La famiglia non è naturalmente buona, così come non lo sono le madri. Spesso un padre, a furia di essere buono, diventa il peggior nemico di suo figlio, lo distrugge a colpi di bontà.

Il bene e la bontà sono partite che si giocano nel crepuscolo di ogni istante, perché in ogni istante noi possiamo essere i signorotti prima esaltati, o bonari, e poi depressi (talora fino all’assassinio) della nostra fettina di universo.

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