Gli esuli in Australia: Nino Mattossovich

Il meccanico di Fiume e la sua rocambolesca fuga assieme all'inseparabile amico Gino Berci

Fu rocambolesca la sua fuga da Fiume assieme all’inseparabile amico Gino Berci. Quattro giorni d’inquietudine; un percorso articolato e complesso da sintetizzare, ricordato da Mattossovich nei dettagli, cedendo ancora adesso, in alcuni passaggi, al sopravvento della commozione.

Nato nel 1933 in una famiglia di cinque figli a San Lorenzo del Pasenatico - comune del Parentino - a sedici anni Nino entrò alla scuola convitto annessa al Silurificio Torpedo di Fiume, dove si diplomò meccanico, specializzandosi successivamente nel settore dei motori Pachard. Attivo praticante dello sport, era componente della Squadra Quarnero Pugili Fiumani.

l’intervista fatta da Viviana Facchinetti a vari istrian presso Rete Italia di Melbourne
L'intervista fatta da Viviana Facchinetti a vari istriani, compreso Mattossovich (il 2° da sinistra)

Provava insofferenza per la nuova realtà instauratasi nella sua terra natia; ne percepiva la volontà di soffocare cultura e tradizioni giuliane. Con Gino, suo amico da sempre, concluse che era tempo di scappare da una dimensione a cui non si sentivano di appartenere.

Fu una decisione che non ebbe subito avvio favorevole. Partiti una prima volta con il treno, per proseguire quindi a piedi per i boschi, una pioggia a dirotto disorientò il loro cammino. Perso l’orientamento, si ritrovarono al punto di partenza, costretti a far ritorno a Fiume.

Ma non si arresero e dopo qualche tempo vollero ritentare la fuga. Era il mese di luglio del 1953. Ancora in treno; pensavano di saltare giù ad una delle tante curve in cui il convoglio avrebbe rallentato la corsa. In dotazione una borsa con un pezzo di pane ed una carta geografica. Nello scompartimento c’era un soldato con un mitra; un signore chiese loro la destinazione e controllò i documenti. Si sentivano osservati. In possesso di un biglietto per Pisino, scesero in quella stazione per non destar sospetti, incamminandosi verso Pinguente. In giro c’era molta milizia. Si nascosero fra i cespugli, attendendo la sera per superare il ponte che dovevano attraversare. Una volta sull’altra riva, continuarono a camminare fino a notte inoltrata. Al piano superiore di una casa c’era della gente che cantava; loro al di sotto, le gole inaridite dalla sete, sentivano sgorgare dell’acqua. Non riuscirono a resistere e la bevvero, senza chiedersene la provenienza. Camminarono ancora per un po’ - in lontananza si udiva il latrare dei cani. Si concessero due ore di riposo; ogni tanto dei passi li facevano sussultare per il timore che si trattasse di militari. Si rimisero in marcia nella notte, lungo i campi, ma costeggiando la strada, l’unica direttrice certa verso Trieste. Nel buio della notte le luci della città ancora lontana irradiavano un alone luminoso che aiutava ad orizzontarsi. Era appena passato il primo giorno della loro odissea, contrassegnata da stenti, fatiche e inquietudine, nell’arsura dell’estate. Attraversarono l’Istria, passando per campi, superando alture, risalendo greti, guadando corsi d’acqua, arrendendosi di tanto in tanto a recuperare un po’ di forze quando, sfiniti, trovavano dell’ombra ristoratrice ai piedi di un albero. Diffidavano di tutto e tutti: accadde anche con il vecchietto che incrociarono intento a raccogliere il fieno e a cui chiesero indicazioni sul percorso per Trieste. Appresa la via, per non far trapelare le loro intenzioni, per un po’ diressero sulla strada opposta. Capitò ancora e fu la loro salvezza quando, intravvisto un militare in lontananza durante una sosta, ebbero la prontezza di mettersi al riparo fra il fogliame di un albero. Il soldato si avvicinò alla loro postazione. Fu raggiunto da altri commilitoni; cominciarono a buttare delle pietre fra i rovi. “Mio nonno faceva così quando voleva stanare le lepri. Ma lo facevano a questo scopo anche loro? - il dubbio di Nino, immobile sull’albero e timoroso che potessero sentire la violenza dei battiti del suo cuore. Un milite era talmente vicino che allungando la mano avrei potuto toccare la stella rossa del suo berretto”. Dovettero restare nascosti fino a sera, quando ebbero la certezza di essere soli e poterono riprendere il loro tragitto.

Finché arrivarono in prossimità dei raggi di luce, che nel buio connotavano Trieste. Camminarono tutta la notte, con grinta. Era la notte più importante della nostra vita, era la notte che ci portava verso la libertà - ricorda Mattossovich, interrotto nel suo racconto da un groppo di commozione. Trovarono gli alberi marcati di bianco: erano arrivati alla linea di confine. A 50 metri da loro, vicino alla strada scorsero un militare seduto su una seggiola, il fucile appoggiato allo schienale. C’era ancora ansia da dominare, per il timore di esser scoperti proprio ad un passo dalla meta. Le foglie secche scricchiolavano sotto ai loro passi. Era meglio attendere ancora la notte.

Superato finalmente il confine, per un po’ continuarono a temere che il percorso attraverso i campi li inducesse in errore, riportandoli sui loro passi. Poi attraversarono campi e terreni coltivati, raccogliendo pomodori, pere, qualsiasi prodotto dell’orto che potesse almeno in parte tacitare la fame, in tutti quei giorni loro fedele compagna di viaggio. Ritrovarono anche lo spirito, quando, udita una signora in lontananza che picchiava il marito ubriaco, Gino disse: ”andiamo via, qua picchiano i maschi”.

Era mezzanotte quando arrivarono in via Flavia, incrociando i muli triestini che rincasavano dal ballo, cantando spensierati. Da essi ebbero l’indicazione della stazione di polizia più vicina. Si presentarono per chiedere asilo politico, affamati e con le scarpe sfondate. Dopo le formalità, i poliziotti chiesero se si accontentavano di un po’ di risotto avanzato dalla loro cena. Nino lo ricorda come il piatto più speciale della sua vita. Era il 26 luglio 1953. Dormirono in commissariato quella notte. Non essendoci altra soluzione, li fecero dormire nelle celle con le porte aperte. Il giorno successivo vennero sistemati al campo profughi di Opicina, da cui vennero poi spostati dapprima nel centro esistente presso l’antico carcere dei Gesuiti e poi a San Sabba.

Nino Mattossovich
Mattossovich in campo profughi a Trieste

Da lì Nino Mattossovich, ancora una volta assieme a Gino Berci, partì per l’Australia il primo gennaio del 1954, con il Toscana. Il suo bagaglio era la piccola borsa con cui aveva lasciato Fiume; dentro un asciugamano e due spazzolini da denti. Il vestito glielo avevano dato i funzionari dell’IRO.

All’arrivo, i recinti arrugginiti delle case, il treno per Bonegilla, le baracche del campo gli insinuarono qualche dubbio. Poi vedendo la moltitudine di emigranti attorno a lui, pensò che se ce l’avevano fatta loro, sarebbe sopravvissuto anche lui. Venne mandato a Murchison, a qualche centinaio di chilometri da Melbourne, assegnato ad un lavoro di manovalanza nella costruzione di un canale che doveva fornire l’acqua alle fattorie della regione. Anche in questa occasione ci fu un inizio un po’ sfortunato, con il rovesciamento dell’autobus che li portava al lavoro. Da quell’occupazione il mese successivo passò a Melbourne, per fare il meccanico. Per integrare le sue entrate, lavorò anche da un calzolaio. A giugno, volle festeggiare il suo ventunesimo compleanno regalandosi un orologio da polso, un Omega che ancora indossa e perfettamente funzionante. L’anno successivo scoprì, grazie ad un collega con cui lavorava in un garage, la possibilità di aprire un conto bancario.

 Mattossovich nell’officina di Melbourne in cui lavorava come meccanico
Mattossovich nell’officina di Melbourne in cui lavorava come meccanico

Indimenticabile per Mattossovich rimaneva però la data del suo arrivo a Trieste; una strana coincidenza volle che proprio nell’anniversario

di quel giorno, nel 1977 registrasse l’avvio della sua ditta, la Metropolitan Mechanical Maintenance & Engineering pty ltd., altamente qualificata nella manutenzione e riparazione di motori elettrici industriali.

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