Eugenio Melani, il sopravvissuto

È stato tra i fondatori di questo giornale e specialista di politica estera. Era un commentatore quieto. Solo per i torti fatti a Israele si riscaldava. Fu implacabile nel denunciare il filoarabismo dell'Italia degli anni '70 e '80. Una volta rivelò un discorso filo-Arafat di Giulio Andreotti, ministro degli Esteri, destinato a restare segreto e che invece fece il giro del mondo. Eugenio era socialdemocratico. Questo lo descrive bene: un moderato, un minoritario, un laico. Al giornalismo ci arrivò per campare, perché amava la bella vita, le auto, i viaggi. Era un elegantone tipo Grande Gatsby. La professione lo mise al chiodo. Per Montanelli ebbe un'adorazione. Negli ultimi anni, fino alla morte di Indro, si sentivano al telefono 2-3 volte la settimana, l'uno a Roma, l'altro a Milano. Fu solo per accontentare Montanelli che nei primi anni '80 accettò di dirigere la redazione romana del Giornale. Comandare era contrario alla sua natura. Aveva un rapporto problematico con gli ordini e l'obbedienza. E si capisce. Soldato sul fronte jugoslavo, fu catturato dai nazisti dopo l'8 settembre. Finì in un lager in Baviera. Subì per anni i «marsch», i «verboten» e gli altri imperativi che gli tolsero per la vita il vizio di impartirne. Per una randellata, gli restò un braccio offeso. Quando giunsero gli americani, un sergentone Usa indicò a Eugenio il nazista che comandava il campo e gli chiese: «Vuoi ammazzarlo? Tieni», e gli allungò una pistola.

Eugenio voltò le spalle. Poi sentì due colpi. Spesso parlava delle cose tristi della vita, ma le condiva sempre di qualche ironia, perché il mondo di Eugenio aveva entrambe le facce.
Giancarlo Perna - 17 agosto 2002

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