Eunice Odio, la poetessa più bella con il cognome più sbagliato

Costaricense, nata nel 1919 e morta nel '74, i suoi versi sono un inno all'amore carnale e spirituale. Isolata dalla comunità letteraria a causa delle sua pesanti critiche al castrismo, finì sola e dimenticata

Eunice Odio, la poetessa più bella con il cognome più sbagliato

La più bella poetessa della storia? L'italo-argentina (nata nel Canton Ticino) Alfonsina Storni e la cilena Teresa Wilms Montt avrebbero qualcosa da ridire, in proposito. Ma Eunice Odio (1919-1974) ebbe dalla sua, oltre agli ondosi capelli corvini, ai profondi occhi di gatta e alle labbra che sembrano baciare anche in fotografia, proprio quel cognome, Odio, che alimentando il contrasto (la poesia non è forse dialettica irrisolta di contrasti?) con il suo fascino latino, ce la dipinge in una parola che diventa, di per se stessa, ossimorica, dunque assurda. Sinestetica anche, come i versi della maliarda costaricense.
Di lei, in Italia nulla è stato tradotto. Nulla tranne la «plaquette» edita ora da Via del Vento di Pistoia: «Questo è il bosco» (pagg. 32, euro 4, cura e traduzione di Tomaso Pieragnolo). Carnalità immersa nella natura, ambientazioni vagamente oniriche, stupore fanciullesco, certe formule felici che ricorrono («la brutale tenerezza», «commuoverci brutalmente»; «e sto come le rose/ disordinando l'aria», «e appena le mie due gambe che correvano/ disordinando l'aria»). Una poesia basicamente materica, cui tuttavia basta la fugace manifestazione di un'ape, una rondine, una foglia ad aprire, come chiavi mnemotecniche, le porte del ricordo. Ricordo dei morti (Fernando Brenes e Max Jiménez), dell'infanzia, di incontri amorosi, dell'amico Alfonso Chase. Non c'è un inizio e una fine. Il discorso è sincopato e frammentario, procede per balzi e soste, umorale, femmineo: «Però adesso, che cosa devo essere?/ Se mi sono nati questi occhi grandi/ e questi chiari amori di sbieco»; «Io mi guardo dentro,/ preparo lentamente/ un gesto morbido...».
Ma la bellissima Eunice non fece sentire la propria voce soltanto con i versi. Le cantò anche, e a chiare lettere, a una sinistra messicana (in Messico s'era trasferita nel '55) supinamente appiattita sui dettami castristi, da lei pesantemente criticati. Ne ottenne l'inevitabile ostracismo che fra l'altro aggravò il suo declino fisico, fra alcol e solitudine. La trovarono dieci giorni dopo la morte, in casa.

«Imprigionata in carceri di spuma/ nella misura del tuo corpo,/ non vedo passare la notte,/ solo vedo il giorno/ che entra dalle tue ascelle trasparenti/ e ti denuda», aveva scritto. Nuda e pura e con quegli occhi di gatta sbarrati sull'ultimo precipizio della poesia.

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