Corri, c’è Travaglio. Alla Cattolica di Milano c’è l’incontro «Giornalismo, istruzioni per l’abuso» organizzato da Unità Lotta democratica (Uld, gli studenti di sinistra) e sostenuto dall’accorato giornaletto l’Urlo. E in via Agnese 2, alle 15.30, c’è una ressa bestiale, tutti pazzi per Marco: hanno spostato l’incontro nell’aula più grande ma ancora non basta, la gioventù preme, i commessi fanno blocco sulle scale, fortuna che in mattinata avevamo chiesto il permesso: «Perché lui sì e io no?» tuona un’improbabile studentessa di 60 anni che si è vista superare da un pennivendolo della casta. Ma non basta ancora, superate le scale c’è ressa anche davanti all’aula, dobbiamo salire dalle scale antincendio.
Travaglio, finalmente. Aula piena come un uovo, un caldo mostruoso, l’eroe ha già cominciato da dieci minuti. Sta dicendo questo: «Per come sono messi i nostri telegiornali, sarebbe meglio che ritrasmettessero Carosello, sarebbe meglio che non trasmettessero nessuno dei nostri telegiornali». Parla sul serio: quando non è in tv, o quando pensa che non ci siano giornalisti, abbassa ancor più il tasso di semplicismo. Nascosti in aula, oltre allo scrivente, c’è solo un collega della Padania: che bello se raccontasse di quando Travaglio scriveva sulla Padania con lo pseudonimo di Calandrino. Era il periodo secessionista, oltretutto. Ma adesso Travaglio sta esortando gli studenti a non guardare i telegiornali: «Almeno sai di non sapere», a che serve del resto guardare i telegiornali quando di ciò che ti raccontano «non è vero niente?». Niente, non è vero niente. Niente. È tutto falso, perché «non arrivano le notizie», del resto in Italia «se un telegiornale leggesse anche solo le notizie dell’Ansa sarebbe eversivo», sarebbe «una rivoluzione copernicana», «sarebbe clamoroso». E vagli a spiegare, a Travaglio, che il problema semmai è che i telegiornali spesso si limitano a leggerli, i dispacci Ansa. Lui prosegue: «Manca il nucleo centrale delle notizie», «il potere non vuole far sapere», «altrimenti la gente capisce». Le frasi sono testuali e dipingono l’Italia, non l’Albania di Hoxa.
L’incontro sarà tutto così, più uno spolvero di cabaret da Travaglino: nessuna sfumatura, i buoni e i cattivi, i servi e i Travaglio (in positivo vengono menzionati solo Oliviero Beha e Massimo Fini) e tutto risuonerà infine consolatorio, rinfrancante: chi ama Travaglio lo venera anche perché ogni sua ignoranza trova una giustificazione a posteriori, ogni suo pregiudizio ritrova legittimità di giudizio, scoprirà che ogni apparenza non ingannava, che non era lui a essere qualunquista: sono i politici e i giornalisti che fanno schifo. Tutti, cioè quasi tutti. E intanto piove, governo Berlusconi: e ieri a Milano pioveva davvero.
«Ci sono cinque tecniche di disinformazione», prosegue Travaglio che tuttavia ne illustrerà solo tre. Il primo? Vespa Bruno, of course. Solita descrizione del despota che nasconde le notizie: quando condannarono Cesare Previti, ecco, Vespa fece una puntata sul Viagra. Ed è un esempio perfetto di verità alla Travaglio: che quella sera trasmisero un Porta a Porta sul Viagra, Travaglio, lo seppe peraltro da me, dallo scrivente, che a quella puntata vi partecipai: mi telefonò assieme a Peter Gomez e gli raccontai l’episodio. Ma la puntata in realtà era stata registrata un mese prima, e poi congelata solo perché quella sera c’era stata la strage di Nassirya. Vespa parlò del caso Previti in altre occasioni, ma non c’è motivo che Travaglio racconti queste sciocchezze agli studenti. Meglio raccontare che nel 2004, quando Rocco Buttiglione, anzi, quando «the Rocco Horror Picture show» (risate in aula) andò a Bruxelles e disse che l’omosessualità era un «peccato, non un crimine», ecco, Vespa fece una puntata sul «ritorno dal coma», segue battutone: «I partecipanti non riuscivano a dir nulla perché erano in coma pure loro». Ah ah.
Poi c’è il secondo metodo di disinformazione, «Il modello Floris» anche detto «alla Mentana»: altri due che non l’hanno mai invitato. Su Floris, una sintesi da ambulanza: «I fatti scomodi non si raccontano, ma si fa finta di raccontarli», il metodo consiste nel «farne parlare chi non ne capisce niente», tipicamente «i politici», del resto «li invitano apposta», «così da «buttare in caciara dei fatti oggettivi». I perfidi: «Sono pieni di invitati che parlano di un processo e magari dicono “premesso che non conosco le carte”; ma allora che cazzo ci vanno a fare?». Applausi a Travaglio, che invece le carte le conosce. Altrimenti non potrebbe riproporre alcuni passaggi di alcune sentenze al posto di altri, di certi verbali al posto di altri: è il suo metodo. Non potrebbe enfatizzare le sentenze di condanna o, in caso di assoluzione, le parti che la condanna auspicavano: come ha appena fatto con Calogero Mannino. E non potrebbe parlare del caso Andreotti, anzi, de «il più importante processo della storia d’Europa» come ha fatto ieri con gli studenti della Cattolica. L’architrave del processo di Giancarlo Caselli a Giulio Andreotti, quella impostata dal 1993, quella per cui sono stati spesi miliardi, quella dei Fratelli Salvo, quella dei voti mafiosi e del bacio con Riina, quella, ecco, è tutta e miseramente crollata: per essa Andreotti è stato assolto e basta. È vero, la Cassazione ha marginalmente stabilito che Andreotti ebbe dei rapporti a delinquere sino al 1980: ma lo status giuridico di Andreotti non è «prescritto per mafia», formula inesistente in tutto il mondo per quanto Travaglio ieri abbia cercato di venderla agli studenti: lo status è «non colpevole». La prescrizione comporta l’estinzione del reato, e chi non è condannato per un reato, qui in Occidente, è non-colpevole, e chi è non-colpevole, ergo, è civilmente innocente. Se la prescrizione non fosse questo, probabilmente, non esisterebbe: ma secondo Travaglio è un concetto troppo raffinato per spiegarlo agli studenti.
Filippo Facci
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