"Con la faccia sui tortellini sono famoso come il Papa"

Vent'anni fa i big dell'alimentare volevano mangiarlo: "Così ho puntato sulla mia storia di artigiano della pasta. Era una garanzia di qualità e la gente si è fidata. Perché ho ascoltato i consigli di Mike Bongiorno"

"Con la faccia sui tortellini sono famoso come il Papa"

È popolarissimo persino tra i ragazzini che non perdono una puntata di X-Factor: nell'ultima edizione del programma una delle canzoni di maggiore successo (titolo, per l'appunto, Giovanni Rana) aveva un ritornello che non era altro che la ripetizione a mo' di tormentone del suo nome. L'interessato, nel suo ufficio di San Giovanni Lupatoto, hinterland veronese, ride divertito. «Noi non ne sapevamo assolutamente niente. In poche ore il video ha sfondato su internet. E me ne sono accorto subito: vado in giro e mi chiedono tutti di fare un selfie insieme». Il re della pasta fresca alla popolarità è abituato: da più di vent'anni mette la faccia, in tv e sui giornali, per fare pubblicità ai suoi tortellini. «I conti si fanno alla svelta», spiega. «Ogni giorno sforniamo più di un milione di confezioni. Sulla quasi totalità c'è la mia fotografia. Tutte le volte che uno apre il frigorifero, mi vede; e il risultato è quasi imbarazzante: nelle ricerche che fanno gli esperti di marketing ho un tasso di riconoscimento che è di poco inferiore a quello del Papa». Stefano Accorsi, ideatore di 1992, e che nello sceneggiato interpreta un pubblicitario, ha voluto che in una puntata ci fosse anche lei. Come si è trovato sul set? «Benissimo, abbiamo girato a Cinecittà e non ho avuto nessun problema. Dovevo solo interpretare me stesso e quando sono davanti a una telecamera seguo sempre i consigli che mi diede tanti anni fa Mike Bongiorno, un mio carissimo amico». E cioè «Proprio nel periodo in cui iniziavo a fare da testimonial alla mia azienda mi disse: o sei un attore formidabile o il pubblico si accorge se reciti. Quindi l'unico segreto è essere sempre se stessi ed essere sempre sinceri. Ed era la stessa regola che seguiva anche lui, con le sue gaffe e con le sue uscite che sembravano studiate, tanto facevano parlare la gente e i giornali». Ma come fu che lei decise, primo tra gli industriali italiani, di parlare direttamente ai suoi potenziali clienti? «All'inizio degli anni Novanta tutti i grandi gruppi decisero che la pasta fresca era il futuro del settore alimentare. E vennero a trovarci offrendosi di comprare la mia azienda che era leader di mercato. C'erano colossi come la Kraft, la Star, un paio di volte venne anche il vecchio Pietro Barilla, che mi invitò anche a Parma a casa sua e mi fece conoscere i figli». Lei però ha rifiutato...«Un giorno ero proprio a casa di Pietro Barilla e gli chiesi perché non vendeva lui. Indicandomi un quadro che aveva appesa alla parete e che raffigurava un cavallo mi disse che la sua azienda era come quel bellissimo purosangue, e che le era troppo affezionato. Guardi, gli dissi, la mia azienda al confronto della sua è un asinello, ma io e mio figlio le siamo affezionati lo stesso. Quindi la decisione fu di andare avanti. Però ci sentivamo in guerra contro dei panzer, mentre noi eravamo armati solo di uno schioppo. Allora ci mettemmo a riflettere su che cosa avevamo noi più di loro». E alla fine che cosa avete concluso? «Alla fine ci siamo convinti che il qualcosa in più ero io: un imprenditore che aveva iniziato a produrre in un laboratorio artigianale e che poteva garantire personalmente della qualità dei suoi prodotti. Così partimmo, fu una scelta naturale ed è la stessa scelta che abbiamo ripetuto adesso negli Stati Uniti». In terra americana siete sbarcati di recente... «Sì, nel 2012. Agli americani piace il cibo all'italiana, piace la qualità, e piacciono le storie degli imprenditori. Quindi per la comunicazione abbiamo giocato ancora una volta sulla mia immagine, che anche lì appare sulle confezioni, sono stato anche diverse volte in televisione. Le cose sono andate bene, in quel mercato siamo già secondi dopo Buitoni. Abbiamo una sede a Chicago, accordi con grandi catene di distribuzione come Walmart, un ristorante importante a New York, di cui è responsabile mia nuora. Sui 458 milioni di fatturato complessivo, più di cento arrivano già dagli Usa». Mica male la strada che avete fatto...«Ha visto nell'ingresso quella Moto Guzzi rossa fiammante? La tengo come un reliquia. L'ho comprata quasi 60 anni fa per fare le prime consegne. Era di un pensionato e mi è costata 18mila lire. Allora facevo il fornaio con due dei miei fratelli. Loro impastavano, io portavo il pane nei negozi. E un po' alla volta ho iniziato a studiare quello che chiedevano le clienti. Ho capito che c'era un mercato per la pasta ripiena, ho iniziato a fare due conti. Con la mia fidanzata di allora facevamo i tortelli a mano, poi abbiamo preso una donna, poi due, poi dieci... non c'è stato un salto, è stata una crescita continua». La vera svolta, però, è stato il passaggio dalla produzione artigianale a quella industriale... «Allora di tecnologia non ce n'era, un po alla volta ce la siamo inventata. Io prendevo il treno in terza classe e arrivavo a Milano. Andavo in corso Como: adesso ci sono solo locali e negozi di lusso, ma negli anni Sessanta era pieno di officine. Passavo le giornate in un piccolo laboratorio dove pezzo dopo pezzo mi costruivano le macchine. E anche adesso è capitato che mio figlio abbia passato un mese e mezzo in stabilimento per lavorare e migliorare apparecchi e attrezzature. Tanto più che le esigenze di produzione sono diventate con il tempo più complesse». In che senso? «Faccia conto che oggi produciamo 190 diversi tipi di ripieno. Ogni Paese, ormai siamo in 38 mercati nazionali, ha i suoi gusti. Ci sono i classici come ricotta e spinaci, ma in America va forte per esempio il ripieno all'aragosta. Sempre in America sono abituati a confezioni più grandi e noi ci siamo dovuti adattare. Ovunque andiamo cerchiamo di valorizzare ingredienti locali: negli Usa farina e uova sono ottimi, noi abbiamo prosciutto e formaggio straordinari. Ma il modo di lavorare in fondo non è poi del tutto cambiato. A Chicago mandiamo ogni tanto uno dei nostri vecchi pastai per mantenere sempre alta la qualità. Qui a Verona abbiamo il nostro team di sviluppo: sperimentiamo, assaggiamo, cerchiamo di migliorare i sapori, poi ci sono gli esperti dei vari mercati che ci consigliano». Ora a reggere le redini operative dell'azienda è suo figlio Gian Luca. «Sono stato fortunato: è più bravo di me. La passione l'ha sempre avuta, pensi che quando studiava veniva a fare i compiti in portineria e già allora teneva d'occhio tutto quello che succedeva in azienda. In più ha una preparazione, anche scolastica, e delle doti, che io non avevo. Da solo con i miei tortellini ho fatto l'Italia, ma lui praticamente tutta l'Europa e adesso gli Stati Uniti. Era un mio vecchio sogno ma a realizzarlo è stato lui». Il passaggio generazionale è un momento che si è rivelato fatale per molte aziende imprenditoriali italiane...«Guardi, come le dicevo sarà anche questione di fortuna. Io dico sempre che mio figlio l'ho trovato in un raviolo, tanto il trasferimento dello scettro è stato naturale. Adesso sono come un condottiero che guarda dall'alto di una collina il generale che guida le sue truppe. E il generale è mio figlio. Naturalmente i tempi sono cambiati. Non c'è più un uomo solo al comando, un cervello unico che può decidere tutto. Le cose sono diventate più complicate, a reggere il timone non deve più essere una mano sola ma una squadra, ed è la squadra che deve continuare a far crescere l'azienda ed evitare che diventi vecchia». E lei? «Io adesso mi prendo la libertà di lavorare per scelta. Di tenermi informato leggendo quattro quotidiani ogni giorno. Mi posso permettere di non avere un computer o un telefonino. O almeno di non doverlo usare per lavoro. Anche se poi in realtà di vacanze vere e proprie ne faccio poche». E di solito dove va? «Spesso vado sul Garda, qui vicino. Ma a me piace mangiare, andrei volentieri in qualche bel posto, magari in Emilia, dove si mangia bene. Peccato non me lo lascino fare». E chi glielo impedisce? «Il problema è proprio che mi piace la tavola.

Ogni giorno mi faccio 30 o 40 vasche in piscina per provare a tenermi in forma, ma evidentemente non basta e i chili sono 110 o giù di lì. E allora di solito mi fanno andare in una di quelle bellissime beauty farm, dove però non si mangia nulla e si dimagrisce. Poi torno a casa e ricomincio mangiare».

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