Improvvisamente c'è tregua d'armi fra Israele e i palestinesi. Ammesso che tenga, è lecito chiedersi cosa l'ha provocata e cosa nasconda. Nel giugno scorso il presidente dell'Ipcri (Centro israelo-palestinese di ricerca e informazione) Gershon Baskin suggerì a Olmert una tregua d'armi - che questi respinse - nei termini che ora ha accettato.
Vero che nel frattempo sono successe molte cose, in primo luogo la sconfitta elettorale di Bush a seguito del disastro iracheno. Essa ha riportato sulla scena medio-orientale l'ex segretario di Stato di Bush padre, James Baker assai preoccupante per Gerusalemme. Baker è il diplomatico che obbligò nel 1991 il premier israeliano Shamir a sedersi al tavolo della conferenza di pace di Madrid accanto ad una delegazione palestinese; che minacciò di annullare le garanzie governative americane ai prestiti richiesti da Israele se non cessava la colonizzazione ebraica in Palestina; che disse a Shamir che se voleva parlargli, il suo numero di telefono era 242-338 (cioè le cifre delle due famose risoluzioni dell'Onu che impegnano Israele a ritirarsi dalle zone occupate). In parte - con l'Egitto, la Giordania e il Libano - questa ritirata è avvenuta ma la questione delle colonie in Cisgiordania, e sul Golan siriano come la creazione di uno Stato palestinese resta aperta.
Questo spiega, in parte, il voltafaccia politico di Olmert e il suo rinnovato entusiasmo per quella «road map» che Sharon aveva accettato grazie a impegni scritti di Bush che difficilmente Washington potrà rimangiarsi: non ritorno dei rifugiati palestinesi in Israele, mantenimento dei maggiori insediamenti ebraici, creazione di uno Stato palestinese demilitarizzato, ecc. Impegni che allora avevano fatto andare in bestia i coloni e la destra israeliana e che oggi appaiono a Olmert posizioni da difendere. Per questo rispolvera il programma elettorale del suo partito Kadima, che fu appoggiato da larga maggioranza in cui per la prima volta un governo israeliano si impegnava a mettere fine alla colonizzazione. Avendo perduto la fiducia del Paese nella guerra mal condotta nel Libano, la traballante coalizione governativa di Gerusalemme, nonostante l'aggiunta di un partito xenofobo d'estrema destra, ricerca ora una nuova legittimità in quel processo di pace che era stato la sua forza. A questo si deve aggiungere la stanchezza delle parti, i colpi inflitti agli estremisti armati palestinesi, la situazione economica disastrosa dei palestinesi a cui ha condotto la vittoria elettorale di Hamas provocando l'embargo economico israeliano ed europeo.
Ciò detto, la cosa più interessante e promettente in questa tregua è la conferma del detto romano si vis pacem, para bellum. Questo è ciò che si sta facendo dietro la facciata della ricerca della pace, convinti come tutti sono che una nuova guerra sia inevitabile. Non a causa dello «scontro di civiltà» ma degli scontri all'interno della civiltà arabo-islamica che sembrano ricalcare in Oriente le lotte che in Occidente hanno portato per secoli i cristiani a massacrarsi fra di loro.
Dietro le pretese religiose, territoriali e ideologiche si nascondono una volta di più enormi tensioni economiche e sociali. Per uno stato come Israele destinato a combattere sempre le sue «partite in difensiva», la strategia vincente - come del resto nel passato - è di riuscire a tener duro per almeno cinque anni, sperando che il prezzo del petrolio non scenda al disotto dei 40 dollari al barile. È il tempo minimo necessario perché gli investimenti in corso nel campo dello sviluppo di energie alternative, incominci ad incrinare la capacità di ricatto dei suoi peggiori nemici.
È anche il tempo necessario perché il suo potenziale nucleare e tecnologico diventi più importante per gli Stati Uniti (e per l'Europa) sotto qualunque amministrazione di quanto sia l'alleanza col fragile impero americano per qualunque governo di Israele.
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