Torna alla Scala oggi, fino al 7 febbraio, una gloriosa produzione di Falstaff, la commedia lirica che Verdi scrisse a ottant'anni (gli ottanta di allora, correva il 1893), fu l'ultima sua opera. La vedremo nell'allestimento concepito 45 anni fa da Giorgio Strehler, con le scene di Frigerio, e le vicende immerse anziché nella campagna britannica di Windsor, nella Pianura padana, con tanto di nebbie e trattorie locali, ragion per cui lo spettacolo è passato alla storia come il Falstaff lombardo-emiliano. È una produzione vista e rivista plurime volte, di qui i lamenti di taluni, ma è pur vero che l'opera rinasce ogni alzata di sipario e assume un diverso carattere a seconda di chi la dirige, in questo caso Daniele Gatti, e la canta: nel cast scaligero brillano l'uomo-Falstaff per eccellenza, Ambrogio Maestri e Luca Micheletti, nelle vesti di Ford. Rosa Feola sarà Alice, Marianna Pizzolato dà voce a Mrs Quickly e Martina Belli a Mrs Meg.
Micheletti, 39 anni, baritono nelle stagioni dei teatri che contano, mancava giusto il Met di NY dove debutterà a marzo, è pure regista e attore, ha dunque le carte in regola per rispondere all'annosa domanda.
Vedremo uno spettacolo geniale, ma nato 45 anni fa. C'è polvere o parla ancora allo spettatore d'oggi?
«Non ha polvere e continua a soddisfare diversi palati. Dà forma a una commedia realistica, profondamente umana, corrispondente all'abbecedario emotivo di noi odierni per cui non rischia di diventare né farsa né cartolina».
Uno spettacolo stimolante anche per voi interpreti?
«Tutto è al suo posto, non c'è nulla di storto. I primi due atti sono brillanti e i più risolti, l'ultimo rimane per tutti il più insidioso da realizzare. Per noi artisti è confortevole perché Strehler crea dei tableau vivant che si animano, potrebbe esserci il rischio d'estetizzazione, ma la forza della drammaturgia e della musica di Falstaff fugano il rischio. Ne esce un'opera sulla vita affrontata con un atteggiamento smaliziato, vince la capacità di ridere di se stessi, andando oltre la tragedia pur con una punta di malinconia».
Tragedia con cui Lei ha un contatto quotidiano, fra teatro di prosa e d'opera. Sente il bisogno di leggerezza talvolta?
«La tragedia nasce per metterci in guardia, è una forma di purificazione. Kafka dice che guardare nel buio ci rende sensibili alla luce. Certo, nell'opera ci sono drammoni figli dei tempi in cui il melodramma era più seguito che oggigiorno, e rispondevano alla voglia di essere scossi e messi di fronte a un turbine di passioni. Non vorrei azzardare paragoni semplicistici, ma alla fine ancora oggi la cronaca nera resta per tanti appassionante, stuoli di gente si attardano per seguire certi programmi. È il fascino del male.
Che ben conosce essendo baritono, spesso nei panni del cattivo, anche se Ford è un caso a sé.
«Però porta con sé la cellula più tragica, a un certo punto maledice la passione amorosa, il gentil sesso per farsi complice, alla fine, dell'ultima burla tesa a Falstaff. Chiude beffato egli stesso dovendo digerire il matrimonio della figlia».
Con lei si tocca la quarta generazione di professionisti di teatro.
«Correggo: ho già fatto debuttare la quinta generazione».
La figlia Arianna? Ma ha poco più di due anni...
«Aveva un anno e 4 mesi quando è finita sul palcoscenico del Teatro Greco di Siracusa, in Aiace. Sofocle prevede che Aiace dia l'addio al figlioletto, e di solito si ricorre a una bambola oppure a bimbi grandicelli. Però c'è una frase che mette con le spalle al muro: Sofocle pensa a un infante. Io e mia moglie (ndr la cantante Elisa Balbo) ci siamo guardati e dopo una prima prova con Arianna, bravissima, siamo passati allo spettacolo inaugurale. Alla fine è stata coinvolta in tutte le tredici recite di Aiace (ndr inaugurava la 59° Stagione del Teatro greco di Siracusa)».
Conserva cimeli degli avi?
«Ho bauli d'epoca, arnesi vari, costumi, copioni, tutti conservati gelosamente. Era un mondo in cui tutti facevano tutto, ci si sporcava le mani, ed è questo l'unico modo per conoscere davvero il teatro».
Di fatto lei conduce parallelamente tre carriere.
«Penso che la mia vocazione alla poliedricità venga proprio da lì. Da ragazzo ho fatto tutto anch'io, drammaturgo, scenografo, traduttore».
Scala, Covent Garden, New York, Teatro Parenti, Teatro Greco. Ne ha fatta di strada partendo dal teatro di strada...
«Un teatro popolare che da metà 800 ha vissuto le condizioni più povere e
ingiustamente collaterali rispetto alla grande scena, ingiustamente perché il teatro ufficiale si è nutrito di questo teatro, anche attingendo attori, tanti hanno cercato di cancellar il loro percorso. Io ne vado fiero».
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