Il fantasy come genere ha i suoi cliché. Non sono tanto colpa dei grandi padri di quella letteratura, come Tolkien, quanto dei loro epigoni che hanno ripreso certi stilemi riproponendoli all'infinito.
Ecco, avventurandovi tra le pagine di Michael Swanwick e del suo La figlia del drago di ferro (Mercurio, pagg. 500 euro 19) di stereotipi non ne troverete nemmeno uno. O se li troverete li troverete distorti e trasformato in qualcosa di urticante e dirompente. Partiamo dalla trama di questo libro del 1993 che in Italia ha avuto poca fortuna, nonostante l'autore abbia vinto anche un premio Nebula.
Jane è una bambina rapita dal mondo umano e trasportata in questo versante parallelo pieno di elfi, nani, fate e creature magiche. Ma sono creature magiche che hanno trasformato l'alchimia in una forma folle di industrializzazione militarista. Al centro di tutto ci sono fabbriche di draghi di ferro, l'arma finale di violentissime guerre. Sono così magici che per guidarli ci vuole un umano o un mezzo umano che si fonda con la loro mente draghesca. Ed è qui che Jane mette a segno un colpaccio, assieme ad un complice poderoso. Si mette d'accordo con il feroce drago Melanchthon che dovrebbe essere demolito e fugge con lui da una fabbrica infernale.
È l'inizio di una sciarada feroce e violenta tra elfi drogati, sacrifici umani, centri commerciali senza tempo, la magia trasformata in una forma di industrialismo perverso che è anche una critica alla società americana degli anni Novanta, ma anche di oggi.
Un libro che non assomiglia a niente, a tratti indigeribile e delirante, posto com'è a un improbabile incrocio tra Neuromante, Le cronache del ghiaccio e del fuoco e American Psycho. Ma proprio per questo un bel pezzo di letteratura di genere, capace di stravolgere il canone da cui nasce.
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