Tre Oscar, con The Aviator, Sweeney Todd e Hugo Cabret. Undici nomination, tredici nastri d'argento, cinque David di Donatello, film con Federico Fellini, Pier Paolo Pasolini, Neil Jordan, Brian De Palma, Tim Burton. Dante Ferretti, classe 1943, è uno dei maggiori scenografi viventi. «Il più emblematico e rappresentativo della sua epoca. Forse il migliore di tutti i tempi», dichiara Brad Pitt in un docufilm su Ferretti realizzato in collaborazione con Cinecittà. Ferretti è uno che trova naturale parlarti delle preferenze gastronomiche di Martin, salvo scoprire che si tratta di Scorsese, con cui ha realizzato dieci pellicole. Di Macerata, si divide fra la casa di Miami, di Roma e lo studio a Cinecittà dove lavora senza posa, anche se da 24 anni non firma un film italiano. Ma la gran parte delle sue scenografie nascono qui. Proprio a Roma sta lavorando a un progetto particolare: un musical su Nerone.
Cinema, teatro, opera. Ora un musical. Quando sarà pronto?
«Spero quest'estate. Abbiamo già fatto alcuni esterni qui a Roma, ed ora si lavora in un teatro, al chiuso. In questo momento sto ricostruendo la casa di Nerone».
Chi sta lavorando al musical?
«Il testo è scritto da Migliacci e la regia è di Gino Landi. Si sono messi assieme parecchi produttori perché è un'operazione molto costosa. L'idea è quella di farne un prodotto da esportare anche all'estero». Operazione che conferma il recente premio Unesco di Roma, Città creativa del cinema...
«Il cinema è nato qui. O meglio. È nato a Torino poi con De Laurentiis e De Paolis si è spostato a Roma. Ha vissuto anni di crisi ma sono ottimista».
E poi stanno tornando anche gli americani...
«Sì, finalmente stanno riprendendo a fare film in questa città che è un set naturale. Le nuove norme sul tax credit e il dollaro forte aiutano in tal senso. Poi qui si mangia bene. Mi è capitato di ricorrere alla buona cucina per convincere alcuni registi a lavorare a Roma».
Chi per esempio?
«Martin Scorsese. Eravamo a Venezia per presentare un documentario. Stavamo pensando al film Gangs of New York. Cercavo di convincerlo a girare a Roma. Niente da fare. Era scettico. Allora feci un ultimo tentativo. Gli spiegai che c'era un ottimo ristorante, proprio vicino a Cinecittà, un bel pranzo avrebbe comunque giustificato il viaggio».
Veramente l'obiettivo primo era un gran pranzo?
«Proprio così. Telefonai al ristorante Cascina, di fronte a Cinecittà. Dissi con chi sarei arrivato. Era domenica, ma chiesi espressamente una sala senza gente, Martin non ama la folla e gli autografi. Mangiammo da dio».
E a un certo punto lei tentò il colpo...
«Gli dissi, beh siamo qui, possiamo fare un salto a Cinecittà che, tra l'altro, dato il giorno era deserta. Feci opera di corruzione per entrarvi. Spiegai a Martin che là avremmo potuto fare il porto, di là quella scena, nell'angolo quell'altra. Ricordando il bel pranzo, gli spiegai che avremmo potuto lavorare e mangiar bene allo stesso tempo. Ok, facciamolo qui, disse».
E il film venne girato a Cinecittà.
«Non solo. Neanche un metro di pellicola venne fatta a NY. Riprendemmo solo il crollo delle Torri. Ricostruimmo tutto».
Ha detto che essere lo scenografo di Fellini significava «realizzare quello che lui voleva, i suoi sogni, non i miei». È quel che accade anche con Scorsese?
«Con lui è tutto diverso. Parliamo due o tre ore all'inizio del progetto. Quindi mi fa vedere molti film, anche solo per l'inquadratura, mi dice scordati questo, ricordati quell'altro. Parliamo, commentiamo. Poi io faccio i bozzetti, i modellini. Lui arriva all'ultimo momento e mi dice great, great, lo ripete anche a mia moglie Francesca (Lo Schiavo, arredatrice di set, ndr). Mi dice sempre great, mi chiedo se a questo punto posso credergli».
Cosa ha rappresentato, per lei, Fellini?
«Era il mio faro. O meglio, lo chiamavamo il Faro».
Fra i ricordi più vivi?
«I nostri viaggi in macchina e lui che chiede di raccontargli i mie sogni. Inizialmente, non ricordandoli, chiudevo subito il discorso. Poi iniziai a inventarmeli. E lui mi diceva: ma sei un bugiardo, lo sei più di me. Del resto, Giulietta Masina diceva che Fellini diventava rosso quando diceva la verità».
È vero che la sua casa di Roma era quella dell'analista di Fellini, Ernst Bernhard?
«Sì, tanto che avevo lasciato libera l'area dove Bernhard aveva collocato il lettino. Poi ho avuto bisogno di quello spazio».
Che pezzi di scenografia s'è portato in casa?
«Solo fotografie e bozzetti. Tengo tutto nel mio studio a Cinecittà».
Da 40 anni è lì che ha lo studio, ma è da 24 che non produce film italiani.
«Però lavoro con l'Italia più di quanto sembri. Ho collaborato per Expo. Sto lavorando al restauro della casa di Giuseppe Verdi. E ancora, ci sono le scene per le Nozze di Figaro di Mozart per l'apertura del prossimo Festival di Spoleto, con loro sto facendo la trilogia di Mozart».
Ha in testa altre collaborazioni con teatri d'opera?
«No. Lavoro con Spoleto perché Giorgio Ferrara (direttore artistico, ndr) è un amico. Ma non ho tempo di seguire anche l'opera».
E comunque ormai può contare su budget ben diversi rispetto a quelli messi a disposizione dai teatri lirici. Per The seventh Son (Il settimo fratello), di Sergei Bodrov si parlò di una produzione da 130 milioni di dollari. Per uno scenografo vuol dire fare quel che gli pare...
«Infatti ricostruii tutto, ma il film è andato male. Comunque sì, nel Nord America i budget sono diversi rispetto a quelli europei. Del resto, mi dicono che quella dell'intrattenimento è la seconda voce dell'economia americana».
Quali qualità irrinunciabili deve avere uno scenografo?
«La fantasia che ti possa spingere a vedere le cose in maniera diversa da come appaiono. Per quel che mi riguarda, poi, la capacità di immedesimarsi in un determinato periodo. Cerco di calarmi in quella fase storica, mi immagino come vivevano. Faccio un po' come gli attori all'Actor Studio, loro entrano in un personaggio, e io in un'epoca. E poi faccio errori».
Errori? Ferretti il perfezionista?
«Altrimenti se copio tutto perfettamente, sembra finto. L'errore rende più autentico. Ho sempre voluto fare errori. L'ho fatto con tutti i registi».
Ha lavorato con il meglio della regia internazionale. Chi le manca? Con chi vorrebbe lavorare?
«Con Ridley Scott».
Quando pensa al suo medagliere le viene il buon umore? Suppongo sia una bella molla per andare avanti.
«Gli Oscar, per la verità, sono sei: tre a me e tre a mia moglie. Comunque sì, aiutano, non lo posso negare».
Sempre innamorato del cinema?
«Sempre di più. Pensi che rubavo i soldi dalla tasca di mio padre per andare al cinema, a Macerata. Fuori i miei amici che giocavano a pallone, e io che stavo ore e ore in sala, soggiogato dalle pellicole».
Ricorda il primo film che seguì?
«Certo. I ragazzi della via Paal, nella sacrestia di una chiesa. Da quel momento il cinema divenne una fissazione».
Su Wikipedia si legge che frequentò «con profitto mediocre» l'istituto d'Arte. È la verità?
«Beh, ero sempre rimandato a ottobre, quindi non ero proprio un allievo esemplare. Poi, un giorno, andai a Roma con papà, era un mobiliere. Venni folgorato dalla città, lì capii che avrei fatto lo scenografo. Papà era scettico. Mi chiese che razza di mestiere fosse quello... Allora spiegai. Si fece promettere che se avessi superato gli esami, allora avrei potuto proseguire gli studi a Roma. Evidentemente non ci contava. Invece io studiai sodo, superai gli esami con una media dei voti pari a 100, risultai il primo di 500 studenti. Così, iniziai a studiare sul serio, e di pomeriggio lavoravo al fianco di un architetto».
Quale film le ha regalato la più grande soddisfazione?
«L'Età dell'innocenza e Le avventure del barone di Münchausen, qui, mi permetto di dire, la scenografia riuscii proprio bene. Ha visto Cinderella? Le è piaciuto?».
Certo.
«Ecco, anche Cinderella non è riuscito male...».
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