"Il Festival per le famiglie? Sarà una provocazione"

Intervista a Pupi Avati,capo della giuria che giudicherà i titoli in gara. Dal 28 luglio a Fiuggi la prima edizione della rassegna. Sulla fede: "Quando mi danno del fregista cattolico reagisco bene, sono orgoglioso di esserlo"

"Il Festival per le famiglie? Sarà una provocazione"

Roma - «Come reagisco quando mi definiscono, per denigrarmi, “regista cattolico”? Bene. Sono orgoglioso di esserlo. Anzi, sono un cattolico praticante, sia pure con una fede incerta». Dal 28 luglio al 3 agosto Pupi Avati sarà a Fiuggi, non per girare un nuovo film e neanche per ritemprarsi alle terme. Guiderà la giuria del primo Family festival. Giuria atipica: insieme a sei famiglie di varia estrazione sociale e consistenza filiale, il regista bolognese valuterà i nove titoli in gara e magari gusterà anche il resto del menù, dove spiccano le anteprime di DonkeyXote, Ben 10, Narnia: il principe Caspian e Entre les murs. Slogan della manifestazione, creata da Gianni Astrei: «Quest’estate c’è un luogo dove il cinema è di casa per tutti». Naturalmente sono già messe in conto le ironie, essendo il Fiuggi Family festival filiazione di quel Forum delle associazioni familiari che organizzò il Family day. Insomma, secondo alcuni, una roba conservatrice, magari bigotta, che profuma di incenso e tende a destra.

Avati, dubbi nell’accettare l’incarico?
«Nessuno. Ho detto subito di sì, con intimo piacere, perché mi esponeva ai rischi della derisione che comporta tutto ciò che è family. A suo modo, un’iniziativa provocatoria. Perché di solito i festival si consolidano attraverso film-scandalo, che poi i temi siano la politica, il sesso o la violenza poco importa. Altrimenti nessuno ne parla. Oppure arrivano gli sfottò. Com’è accaduto quando ho realizzato per Sat 2000 un servizio sul Family day seguendo i percorsi di cinque famiglie. In verità, sapevo benissimo di essere l’unico regista in quella piazza».

Non c’è il rischio, tra un omaggio all’orso Yoghi e un dibattito sui «transgender», di proporre un’immagine troppo stereotipata e rassicurante della famiglia?
«Guardi, non so come devono essere i film destinati alla famiglia, ma so come non devono essere. Non dovrebbero proporre, in modo seducente, modelli negativi di comportamento sociale. Bisogna dire la verità, senza addolcire i contrasti, ma in troppi casi cinismo e intelligenza sono diventati sinonimi. Prenda Cogne. Su quella morte hanno vissuto parassitariamente in tanti, so io quanta gente s’è comprata appartamenti. La madre che uccide rende. La madre che muore salvando i figli, com’è successo giorni fa a Fano, no».

La famiglia secondo lei.
«La famiglia non soffre solo di problemi economici come credono i governi di centrodestra e di centrosinistra. Il supporto migliore viene dai modelli. Io sono un modello. Mi spiego. Faccio due dei mestieri più difficili del mondo: il regista da 40 anni, il marito da 44. Parliamo del marito. Ho commesso tanti errori, una volta ho vissuto fuori casa per otto mesi, ci sono stati torti, litigi e tradimenti. Ma alla fine sono tornato da mia moglie. Non potevo pensare di privare i miei figli di una delle due figure centrali della loro esistenza. Poi non c’è niente di più bello del riconquistare tua moglie. Per le nozze d’oro credo che la risposerò».

Però chi vuole divorziare...
«Ma certo. Dico solo che oggi ci si sposa e ci si lascia troppo allegramente, si fanno le prove. Vivere insieme non è uno sport facile. È bello un patto che trasforma la passione e l’erotismo degli inizi in un sentimento che attiene all’ineffabile. Quanto alla paternità, altro mestiere complicato, sono stato un padre scadente, un po’ come l’Abatantuono di La cena per farli conoscere. Con Il papà di Giovanna, ho inventato un padre meraviglioso, come mai sarei potuto essere. Silvio Orlando è magnifico».

Dica la verità su Venezia.
«Non ho timore di dire che ho mostrato il film a Müller. Spero sia piaciuto. In concorso - solo in concorso - andrei volentieri. Ma fino ad ora, lo giuro su ciò che ho di più caro, non ho ricevuto conferme».

È vero che vuole raccontare una storia di adozione?
«Sì. Mia figlia ci ha messo sette anni per non avere il bambino che la burocrazia le aveva promesso. Si sarebbe uccisa, quel giorno. Esistono tanti bambini con problemi e tante famiglie che desiderano dei figli. Perché non aiutarli sveltendo le pratiche? Sul tema ho scritto una serie tv, l’ho proposta sia a Mediaset sia a Raifiction: due no».

Ha capito perché?
«Non sarà in linea con i gusti correnti. Si chiama Un matrimonio, cinque puntate, ciascuna delle quali rievoca dieci anni di una famiglia, dal 1958 al 2008, attraverso gli occhi una bambina paraplegica adottata. Ma se le gambe sono deboli, la sua testa è fortissima».

Cosa pensa di

quei politici che si ergono a difensori della famiglia tradizionale pur essendo divorziati?
«Che sono delegittimati. Per farlo bisognerebbe vantare almeno 44 anni e 2 mesi di matrimonio, come il sottoscritto».

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