"Il figlio del direttore" è un omo di mondo che snobba il mondo

Gay discreto, ricco, sessantenne, solitario. Un'assurda telefonata gli cambierà la vita

"Il figlio del direttore" è un omo di mondo che snobba il mondo
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Immaginate: il telefono squilla e a chiamare è il numero di vostro padre defunto due anni prima. Qualcuno ha preso il suo telefono? A qualcuno è stato assegnato il suo numero? Oppure è un fantasma? No, non è un romanzo di Stephen King ma il nuovo romanzo di uno tra i nostri scrittori più raffinati, arbasiniani e antimetafisici, anche perché tra l'altro è un chimico: Piersandro Pallavicini. Titolo: Il figlio del direttore (Mondadori). La scrittura è quanto di più pallavicinesco ci sia, tutto il contrario del provincialismo italiano generazionale impegnato su tutto tranne che nel produrre opere degne di essere tali.

Il protagonista che riceve la chiamata fil rouge o noir o rosé (visti i vini che si servono a tavola) della storia è Michelangelo Borromeo, omosessuale che appartiene «all'ultima generazione ancora portata a praticare l'omosessualità in incognito», laureato in chimica ma libraio che vende prime edizioni rarissime, «scienziato miscredente, misantropo, e anche un po' stronzo». Ecco, tutto il contrario dei protagonisti dei romanzi italiani che per essere candidabili a un premio devono essere buoni e sensibili e socialmente preoccupati delle sorti del pianeta o dell'umanità o più spesso del proprio paesino, della regione, dell'Italia, delle donne, dei migranti, di qualcosa che li faccia sentire utili.

A Michelangelo non frega niente di niente, anche perché ha appena compiuto sessant'anni e sessant'anni è quell'età in cui ti senti già con tutto il passato dietro e quello che promette fisicamente il futuro non è mai una bella cosa, checché ne dicano quelli (o spesso quelle) per i quali la vita inizia a cinquant'anni, la vita inizia a sessant'anni, la vita inizia a settant'anni, finché non dicono più niente perché mentre iniziava un'altra vita sono morti. Se ne sta in libreria e passa il tempo fra Twitter e Facebook: «Se un social ti annoia c'è l'altro, poi l'altro ancora, e dopo ancora torno al primo, la testa sale sulla giostra, il cervello si surriscalda, ecco l'oblio. È un'ottima tecnica per non pensare alla morte».

Ma per i suoi sessant'anni parte per la Costa Azzurra con la sua Porsche, rimuginandoci appena, «in fondo è solo un giorno in più, uno qualunque dei giorni in più che si mettono in fila ogni mattina». Michelangelo era appunto figlio di un direttore di banca e nella storia della sua adolescenza, raccontata attraverso i ricordi suscitati dalla misteriosa chiamata, si riconosceranno (come me) tutti i figli di bancari sballottati da una scuola all'altra per via dei trasferimenti: «Ogni trasferimento in una nuova classe era stato un piccolo trauma, i programmi erano sempre in un punto diverso da quelli della scuola da dove arrivavo, i docenti odiavano avere un alunno in aggiunta ai trenta che già gli toccavano, e il primo giorno, all'appello, quando chiamavano Borromeo, la classe scoppiava a ridere, mentre subito partiva il sibilo della s che ogni scolaro da lì in poi avrebbe sempre messo davanti al mio cognome».

Ma in Costa Azzurra, a Cap d'Antibes, tra una vecchia amica proprietaria di un residence e una nana danese con la quale nascerà una strana attrazione, si dipana una vicenda sottile fatta di varie umanità, tra ristoranti chic, vini prelibati e champagne, e «un osservatore potrebbe dire: quest'uomo ha le mani bucate. D'accordo, ho un appartamento in Costa Azzurra, ho una Porsche 911 coupé, gli abiti me li faccio fare in sartoria, le scarpe d'importazione inglese e a cena vado spesso al ristorante, ma cosa dovrei fare?».

Ci si fa una gran cultura anche gastronomica (ma anche qui non di quella stracciona, da autore italiano) leggendo Pallavicini, e anche di varia umanità vivisezionata da uno sguardo chirurgico senza ideologie, senza anima e senza animosità, con somma eleganza. A ogni romanzo Pallavicini aggiunge un tassello in più all'affresco di una sua commedia umana non divina ma sommamente aristocratica, fieramente snob, esistenzialmente, direi chimicamente priva di illusioni.

L'avvertenza dice che ogni riferimento è puramente casuale (in effetti Pallavicini è un chimico ma non è un libraio, ha una Jaguar e non una Porsche, ha una casa in Costa Azzurra ma non è omosessuale, almeno credo, di sicuro ha una moglie e non è solo come Borromeo, e però è figlio di un direttore di banca, anche lui, e in ogni caso non importa perché siamo tutti morbosamente curiosi ma anche contro Sainte-Beuve, come Proust).

Ma insomma, in tutta questa avventura piena di piccoli colpi di scena e grandi agnizioni sulla vita, chi aveva chiamato il nostro eroe dal numero del padre morto? Non è che lo si legge per quello, ma non sono

così scemo da dirvelo. Questo romanzo, come in generale i romanzi di Pallavicini, godetevelo pagina dopo pagina come si sorseggia un Moët & Chandon che vi porta a spasso il cervello sull'orlo del baratro dell'esistenza.

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