Il figlio morì sotto i ferri Ora allena i medici a non sbagliare più

A Palermo la storia del professor Fiandaca: con i 250mila euro del risarcimento ha comprato manichini di esercitazione per i chirurghi

Enza Cusmai

Ha vissuto un dramma nel dramma. E ne è uscito con tanta voglia di fare per il prossimo. Come devolvere 250mila euro alla fondazione Renato Fiandaca costituita per aiutare medici e infermieri siciliani a gestire meglio le situazioni di emergenza, specie nei pronti soccorsi.
La storia di Giovanni Fiandaca e della sua famiglia risale al marzo del 2005. Una data da cancellare. Prima la notizia di una brutta caduta da una moto del figlio ventiquattrenne, poi la notizia della sua morte nel giro di due ore, in ospedale. Logico per un genitore precipitarsi a chiedere spiegazioni sulla causa del decesso, sul come e perché Renato se n’era andato dopo un ricovero che sembrava quasi inutile, viste le sue apparenti buoni condizioni di salute. E dopo più di un anno Giovanni Fiandaca, ordinario di diritto penale presso l’università di Palermo, non sa darsi pace. «Sono amareggiato e molto addolorato per quello che è successo a mio figlio. Per questo voglio cercare di dare un contributo perché certe situazioni non si ripetano».
Professore come comincia la sua odissea?
«Mio figlio viaggiava con un amico in moto, seduto dietro. Ad una curva il ragazzo che guidava ha perso il controllo ed è finito fuori strada. Renato è stato sbalzato dal sellino ed è andato a sbattere contro un tronco di albero. Ha battuto il torace. È stato però trasportato in un ospedale cittadino che dovrebbe essere adatto a gestire le situazioni di emergenza».
Dovrebbe?
«Purtroppo non è così. Almeno nel caso di mio figlio l’intero staff si è dimostrato impreparato e poco tempestivo. Il medico del pronto soccorso che lo ha visitato non si è minimamente accorto della gravità della situazione, anzi, aveva detto che non era nulla di grave. Renato invece aveva un trauma interno e se n’è andato nel giro di due ore».
E lei che è anche un docente di diritto penale molto conosciuto ha fatto causa all’ospedale?
«No, non ho fatto causa».
E perché no?
«Me la sarei presa solo con un capro espiatorio, con un nome e cognome che è solo l’ultimo anello di una catena. Il più debole. Il problema purtroppo è più complesso. Quel pronto soccorso, come moltissimi del Sud, sono inadeguati. Così come le persone che lo gestiscono. A Palermo, è quasi un disonore lavorare nelle strutture di prima necessità. E così nei pronto soccorso ci mettono giovani inesperti o di scarsa professionalità. Un errore gravissimo visto il lavoro difficile e delicatissimo che devono svolgere i primi soccorritori...».
Certi errori succedono un po’ ovunque purtroppo.
«Dalle nostre parti è ancora peggio. Ci sono delle carenze strutturali macroscopiche. E non a caso la Sicilia è tristemente famosa per i ricorrenti casi di malasanità. Per esempio, nella struttura dov’era stato ricoverato mio figlio, che chiamano ospedale di emergenza, non esiste una sala operatoria. Se anche qualcuno si fosse accorto della gravità della situazione, non avrebbe potuto intervenire per mancanza di strumenti. E mio figlio non sarebbe sopravvissuto al rimpallo delle decisioni per spostarlo in un ospedale più attrezzato».
Non è troppo scettico?
«No, sono realista. Ma un’altra cosa mi ha amareggiato vivendo questa tragedia: l’indifferenza e la mancanza di disponibilità dei medici di fronte al nostro dolore».
Ci spieghi meglio...
«Quando io e mia moglie ci siamo precipitati all’ospedale abbiamo chiesto di parlare con chi aveva assistito mio figlio. Volevamo un po’ di conforto, sapere se Renato aveva sofferto, se aveva chiesto di noi. E poi volevamo esattamente sapere cosa era successo in quei 120 minuti dopo il suo ricovero».
Richieste più che legittime.
«Appunto. Ma nessuno ha voluto incontrarci, nessun medico ha voluto spiegarci nulla».
Un’altra buona ragione per andare fino in fondo alla cosa.
«Ma no, non si può mettere sotto processo intere strutture inefficienti. I nostri pronto soccorso fanno acqua da tutte le parti, sono totalmente inadeguati. E così ho deciso di non gettare altra benzina sul fuoco. Ho voluto essere propositivo e sensibilizzare l’opinione pubblica con un’iniziativa utile. Anziché distruggere proviamo a costruire, mi sono detto, in memoria di mio figlio».
E così ha costituito la Fondazione.
«Esatto. Ho ottenuto 250mila euro circa dall’assicurazione del conducente accusato di omicidio colposo. E ho destinato quella somma alla preparazione del personale ospedaliero, primi tra tutti quelli che operano nei pronti soccorso».
Si è rivolto all’università?
«All’inizio sì. Ma la mia iniziativa si sarebbe potuta realizzare tra vent’anni. Troppa burocrazia, troppe lungaggini. Così mi sono rivolto all’Ismett che è in collegamento con un centro americano d’eccellenza in fatto di chirurgia d’emergenza. E la cosa incredibile che il mio progetto si è trasformato in realtà in pochissimo tempo».
Avete acquistato manichini molto sofisticati per il training di simulazione.
«Sì, questi robot manifestano reazioni fisiologiche quasi come un essere umano. Tossiscono, respirano, piangono. Arriveranno in Italia dopo l’estate. E già in autunno partiremo con i corsi destinati a medici e infermieri. Ma ovviamente le nostre sono risorse limitate e non possiamo fare tutto da soli».
Quindi l’iniziativa rischia di arenarsi?
«Spero proprio di no. La Fondazione ha la funzione di promozione e di stimolo. Servono sicuramente altre risorse e chi è interessato darci una mano si faccia avanti.

Noi cercheremo di coinvolgere aziende sanitarie, enti e banche per farci sovvenzionare. Questa attività ha senso se si stabilizza nel tempo. Con l’aiuto di tutti quelli che vogliono far guarire la nostra sanità malata».

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