La figuraccia del premier

C’era chi l’aveva previsto agli inizi del 2006, prima delle elezioni: la prossima guerra economico-finanziaria (dopo Antonveneta, Popolare di Lodi, Rcs) sarebbe stata su Telecom Italia. Sconfitte le truppe avventurose (da Gianpiero Fiorani a Emilio Gnutti a Giovanni Consorte) raccolte da Antonio Fazio e da Massimo D’Alema, la partita si sarebbe aperta sull’azienda guidata da Marco Tronchetti Provera. I segnali si coglievano nelle parole di Romano Prodi, candidato favorito alle politiche, che diceva di volere mettere le mani sulla Authority per intervenire sulle «reti» italiane (dalle comunicazioni alle autostrade). E si vedevano negli atti di Intesa che nervosamente minacciava e poi usciva da Olimpia per costringere Tronchetti a trattare. L’istituto guidato da Giovanni Bazoli aveva fatto capire che le reti dovevano essere suo terreno privilegiato di caccia, anche perché perdute un po' delle tradizioni incorporate con le fusioni (il know how per esempio della Comit e in parte del Mediocredito della Cariplo) si puntava a business dalla logica non troppo complessa.
La logica di Prodi era semplice: da una parte individuava in Intesa la banca su cui fare sistema, dall’altra si trattava di ridimensionare quell’establishment milanese (da Tronchetti a Mediobanca) ma con propaggini romane (Cesare Geronzi) che gli aveva dato non poco fastidio nel 1996 fino alla caduta del suo governo e al subentro di quello D’Alema. Se questo era il quadro, le mosse dopo la piccolissima vittoria del 9 e 10 aprile furono conseguenti: la prima operazione consistette nel bloccare l’operazione di fusione Autostrade-Abertis (la società dei Benetton con quella spagnola) perché questa iniziativa avrebbe dato alla famiglia di Ponzano Veneto munizioni per intervenire in Olimpia, holding di controllo di Ti. Poi si passò a un doppio approccio di lusinghe (ti compriamo la rete a prezzi notevoli: il cosiddetto piano Rovati) e di minacce (la Telecom mi spia, disse Prodi. Anche se poi risultò che il premier era fra i meno spiati d’Italia). In questo quadro la fiducia di Tronchetti in un personaggio ultra-avventuroso come Giuliano Tavaroli, la triste idea che il dossieraggio (anche quello legale, non parliamo delle imprese tavaroliane) possa essere strumento decisivo nella lotta politico-finanziaria portarono all’esplosione dello scandalo (far scoppiare provvidenzialmente gli scandali è specialità di certi ambienti giudiziari italiani) nell’autunno del 2006.
Tronchetti lasciò e subentrò il «solito» Guido Rossi, l’uomo che quando interviene attenua le inchieste giudiziarie e ricompone gli interessi. La soluzione Rossi non era del tutto favorevole a Prodi perché l’avvocato d’affari non è privo di rapporti con Mediobanca, con D’Alema e con Geronzi. Ma era una scelta (forse obbligata per evitare guai peggiori) difficile per Tronchetti perché lo metteva nelle condizioni di subire scelte altrui. Era in parte giustificata dalla politica di indebitamento eccessiva compiuta come socio di riferimento di Ti, che finiva per ricadere sulla politica industriale, ma era comunque una scelta a rischio. E il pericolo si è avverato quando Tronchetti ha tentato la sua mossa «industriale», il rapporto con la spagnola Telefonica. Un approccio che Rossi ha spiegato che era ancora a uno stadio primitivo e che comportava una manipolazione impropria di cespiti industriali. Ma una scelta non priva di una logica perché realizzata con un partner dal solido background, interessato a un Sud America dove la società italiana già opera alla grande. Chiusa la via telefonica, il complesso sistema politico-finanziario che sembra oggi dominare l’economia italiana si è messo in testa di forzare Tronchetti a vendere a un prezzo unitario per azione, certamente correlato agli attuali valori di Borsa ma tale da mettere in difficoltà strategiche Pirelli (socio di riferimento via Olimpia di Ti).
Un’operazione che ricorda le pratiche di esproprio di altri grandi gruppi italiani del passato (da Rizzoli a Montedison) tra l’altro spesso avvenute proprio sotto la regia di Rossi. Che cos’è successo, però? Da una parte si è riscontrata la mancanza di quel regista unico di queste operazioni che è stato Mediobanca e che Bazoli non è riuscito a sostituire. Dall’altra si è sentito il peso dell’apertura dell’economia italiana ai mercati internazionali: l’appello di Tronchetti ad At&t e America Movil ha questo senso. La trappola non è scattata (almeno sinora). Il cedimento al potere assoluto delle banche (anzi della «banca») non si è realizzato. La questione dell’italianità della rete di telecomunicazioni che ha fino a un certo punto un senso, non permette però di cavalcare i vecchi metodi.

Prodi colleziona l’ennesima figuraccia su un terreno che da ex ras dell’Iri pensava di poter dominare. Qualunque soluzione sarà praticabile solo se il governo farà scelte umili e non prepotenti. Altrimenti la prospettiva di convivere con telefoni At&t (o anche messicani) non è affatto disperante.
Lodovico Festa

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