Chi capisce meglio la musica? Chi sa leggere uno spartito o chi si mette a piangere quando ascolta un blues? Bob Dylan non ha dubbi: chi si sente le note nelle ossa e nel cuore. Chi è il miglior compositore? Chi dispiega le sue conoscenze nel campo dell'armonia o chi sa scrivere una melodia in pieno accordo con un testo? Bob Dylan non ha dubbi: chi sa essere toccante, anche nella semplicità. Tutto questo, però, senza diventare snob al contrario: se qualcuno conosce la musica può scagliare più frecce e forse ha qualche possibilità in più di andare a segno in quel campo affascinante ma inafferrabile che è la canzone d'autore. Bob Dylan, premio Nobel per la letteratura, pubblica il suo terzo libro dopo Tarantula, un delirio beat uscito ufficialmente nel 1971, e Chronicles vol. 1, una autobiografia molto particolare datata 2004. Ora è il momento di Filosofia della canzone moderna (edito da Feltrinelli come i precedenti, pp. 340, euro 39). Di filosofia ce n'è veramente poca. In compenso, e per fortuna, ci sono molte storie. Dylan «spiega» oltre sessanta canzoni tra le sue favorite. Si addentra raramente in questioni tecniche. Il premio Nobel preferisce far vivere i brani attraverso le traversie e le avventure dei personaggi. Il risultato è straordinario: forse non c'è modo migliore di descrivere il pop, il blues, il bluegrass, il country, il folk. Non c'è quasi spazio per il rock'n'roll che non sia delle origini: niente Beatles, Stones, Hendrix. Ci sono My Generation degli Who e Pump It Up di Elvis Costello e London Calling dei Clash. Largo spazio a Willie Nelson, Johnny Cash, Hank Williams, Frank Sinatra, Dean Martin, Domenico Modugno, Little Richard e anche a eroi «minori».
Molte canzoni sono spunti anche per ampie digressioni dove Dylan espone le sue idee. If You Don't Know Me By Now di Harold Melvin & The Blue Notes è l'occasione per una riflessione sulla fede, un tema centrale per Dylan dai tempi della conversione al cristianesimo all'inizio degli anni Ottanta. Scrive Dylan il predicatore: «Una delle ragioni per cui la gente non si rivolge più a Dio è perché la religione non fa più parte del tessuto delle loro vite. Viene presentata come un'incombenza domestica: è domenica, dobbiamo andare in Chiesa». Ma una volta «la religione era nell'acqua che bevevamo, nell'aria che respiravamo». Ed ecco il salto dalla «teologia» quotidiana alla musica: «I canti di lode davano i brividi come le canzoni carnali, e in effetti ne erano le basi. I miracoli facevano luce sul nostro comportamento e non erano solo uno spettacolo». Cheaper to Keep Her di Johnnie Taylor offre la possibilità di tirare un pugno in faccia alla cultura accademica: «I dischi di musica soul, come lo hillbilly, il blues, il calipso, Cajun, polka, salsa e altre forme di musica indigena, contengono spesso la stessa saggezza che le classi superiori ricevono all'università. Mentre i laureati della Ivy League parlano d'amore in una sfilza di quartine soffuse di qualità astratte e attributi impalbabili, la gente - che abiti a Trinidad o ad Atlanta - canta dei vantaggi di avere per moglie una donna poco attraente e delle altre pure e semplici verità della vita». Poi sua Bobbitudine parte per la tangente e si lancia in un elogio del matrimonio poligamo: «Quante mogli ha un uomo sono solo fatti suoi». È una provocazione dovuta al costo dei divorzi ma possiamo comunque immaginare una torma di femministe andare a caccia di Bob con i forconi in mano.
Il gruppo rock prediletto sono i Grateful Dead, con i quali Bob ha suonato molte volte dal vivo, incidendo anche un album insieme con loro. Qualche dissertazione tecnica qui c'è: la forza dei Grateful Dead è nella sezione ritmica di impronta jazz e nel virtuosismo dei due chitarristi, Bob Weir e Jerry Garcia. Questa band dà l'impressione di essere sempre in viaggio, non si sa in quale direzione, e qui salta fuori un punto di riferimento extra-musicale: William Burroughs e la sua fantascienza del tutto atipica, persa in un trip dove si confondono realtà, sogni drogati e inganni di antichità divinità azteche. Potrebbe sembrare impossibile, almeno a noi italiani, ma in fondo Dylan è più che convincente: anche Nel blu dipinto di blu appartiene alla categoria delle cavalcate psichedeliche, in anticipo di dieci anni sul fenomeno. Scrive Dylan: «Sei abbastanza sicuro di essere diventato una specie di mutazione biologica, non sei più un semplice mortale. Potresti fare a pezzi il tuo corpo e spargere ovunque i tuoi brandelli. (...). Passi rombando come una cometa, sei in fuga verso le stelle. Sarai magari pazzo ma non sei un imbecille». È l'unica canzone italiana ma non è l'unico accenno alla canzone italiana, che Dylan sembra aver sempre presente, e che identifica grosso modo nella tradizione napoletana (rivisitata). Gli italiani, tra l'altro, sono un po' dappertutto. Per lui, Dean Martin è Dino, l'italiano. E anche il vecchio Frank (Sinatra, ovviamente) appartiene alla famiglia allargata dei nostri «paesani».
Per finire un po' di filosofia. Tra le canzoni predilette c'è Your Cheating Heart di Hank Williams. Perfetta nella sua semplicità. Dylan arriva a dire che se fosse suonata «meglio» diventerebbe inascoltabile: «È il problema di molte cose al giorno d'oggi. Tutto è così saturo; tutto ci viene imboccato.
Tutte le canzoni parlano di una sola cosa e di una cosa in particolare. Non ci sono chiaroscuri né sfumature, non c'è mistero. Forse questa è la ragione per cui al momento il luogo dove la gente ripone i propri sogni non è la musica. I sogni soffocano in questi ambienti non aerati».
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