Fini: «Silvio? Non gliene lascio passare una»

RomaLogoramento. La strategia di Fini non è un mistero. Quelli che lo conoscono, e lavorano con lui, fissano tutti questo punto di partenza: Gianfranco è arciconvinto che il «berlusconismo» sia ormai all’ultimo atto.
È qui, da tale convinzione, che si sviluppa la sua azione politica. È un tira e molla, sempre più profondo, incisivo, senza remore. Fini non arretra, quando può colpisce, non cerca la mediazione, ma fissa paletti. Qui sì, qui no e lo fa con una nonchalance che irrita il premier. Il problema è che Fini lo sa e non se ne preoccupa. La rottura, per lui, non è più un tabù. Non è una preoccupazione. Non la teme. Ma non sarà lui a dire basta. Il gioco è fare in modo che sia il Cavaliere ad assumersi la responsabilità politica del divorzio. Questo spiega perché, come riportato da L’Espresso, l’ex delfino, dopo la stretta di mano freddina sulla giustizia, sussurri ai suoi lettori pariolini: «Non gliene ho lasciata passare solo una». Quando poi legge il testo sul processo breve, con l’immigrazione clandestina inserita nell’elenco dei reati gravi, come quelli di mafia e terrorismo, la sua reazione è senza sfumature: «I patti non erano questi, siamo al gioco delle tre carte». Tutto questo arriva dopo mesi e mesi di sterzate, predicozzi sul ruolo del Parlamento, monarchie, caserme, distinguo, precisazioni, dialoghi interrotti, stilettate più o meno fraterne. Berlusconi in trincea e Fini sempre più super partes, sotto l’ombrello istituzionale di Montecitorio.
Il distacco si legge anche nelle piccole cose. Ieri a Genova pioveva. Fini è lì per ricordare i 40 anni delle Regioni. Fa un discorso molto bipartisan, una stoccatina alla Lega sul federalismo fiscale, che è bello e funziona solo se c’è uno Stato centrale forte, poi una visita alla mostra «La Merica»: «Gli emigranti italiani che cercarono fortuna in America hanno lo stesso volto di quei poveri disgraziati che oggi cercano di arrivare in Italia attraverso il canale di Sicilia». Un breve accenno alle riforme: «Il Pdl deve guardare al di là della punta del proprio naso, oltre i problemi contingenti». Traduzione: non pensiamo ai processi. L’ultima tappa è l’incontro con i candidati del Pdl. Era previsto nel programma della giornata. Fini che fa? Si dilegua: «Non sono qui per fare politica». L’unico strappo è il sostegno, da amico, alla candidatura di Sandro Biasotti: «Se fossi ligure voterei per lui». È, aggiunge, la sua ultima dichiarazione di voto. Non può permetterselo. È il presidente della Camera. Ergo: neutrale come la Svizzera (quella però di questi giorni post scudo fiscale).
La sensazione è che il cofondatore del Pdl ragioni ogni mattina su un futuro alternativo. Questa, perlomeno, è la lettura (o la speranza) dei finiani meno moderati, quelli che non vedono la rottura con il Cavaliere come una sciagura. Tra di loro parlano di strategia del logoramento. Fini, in questo, è molto più cauto dei suoi consiglieri. Un esempio: Italo Bocchino da tempo ha smesso di interpretare il ruolo del suo maestro Tatarella. Non tesse la tela, ma spesso la disfa.
È una questione di tempi. Quello che Fini teme davvero è il voto, subito. Non a caso dice: «In campagna elettorale bisogna fare squadra». È troppo presto. Berlusconi è ancora forte e poi davanti agli elettori si trasfigura, ritrova energia, convinzione, potenza. È il suo terreno e lì è imbattibile. È per questo che lui, Fini, frena quelli che dicono «sia quel che sia». La destra, la nostra destra, è un’altra cosa. È arrivato il momento di lasciarci alle spalle il berlusconismo. La sua tattica è un’altra: temporaggiare, sfiancando. Tanto le occasioni ci sono. La prossima sarà sul testamento biologico, una questione etica su cui non intende fare un passo indietro. In questi giorni ci sono state diverse riunioni «laiche». Fini è stato chiaro: la linea è non accettare compromessi. Se qualcuno fa storie, in questo caso non Berlusconi, la risposta è già scritta: sulla vita e sulla morte non si patteggia. Ineccepibile, ma ci sarà turbolenza. E in questo momento tutto può servire.
Il premier ormai non si aspetta più nulla. La tentazione di sparigliare le carte e giocarsi il tutto per tutto con il voto è fortissima. Si sente tradito: «A Fini ho dato tanto, lui fa cadere tutto dall’alto». E i ricordi tornano. Era il 1993 quando il Cavaliere disse: «Io a Roma voterei per Fini». Era lo scontro con Rutelli, lo sdoganamento della vecchia destra. Conta tutto questo? La risposta arriva ancora una volta da FareFuturo: «Tradimento, slealtà, ingratitudine sono categorie politiche medioevali. I rapporti di potere, nel mondo democratico, occidentale e più o meno liberale, non si possono più basare sulla fedeltà personale.

Ma si fondano sulla condivisione di un progetto». Appunto. Ma qui ci sono tutte le contraddizioni di Fini. Come scriveva James Baldwin: «Il futuro è come il paradiso, tutti lo esaltano ma nessuno ci vuole andare adesso».

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