Firenze è piena di paure... ma il razzismo è un’altra cosa

Il delitto e le reazioni viste dallo scrittore fiorentino Marco Vichi. La città piange i senegalesi, mistero sul movente del killer. Colpo al gruppo xenofobo: i neofascisti che odiano i romeni ma anche Bush

Firenze è piena di paure...  ma il razzismo è un’altra cosa

di Marco Vichi

Un italiano ha ucciso due senegalesi e ne ha feriti altri tre. È successo a Firenze, ma la città - pur da sempre inospitale con chi non è fiorentino - non deve e non può essere tacciata di razzismo. Anzi, Firenze ha reagito con fermezza, e aggiungo qui la mia piena solidarietà alla comunità senegalese. Il primo cittadino, Matteo Renzi, ha incarnato lo spirito della città, la quale ha dimostrato con atti visibili la propria avversione all'orribile delitto di un folle, di un individuo che ha messo mano alla pistola per esprimere il proprio razzismo. Dunque la colpa ricade unicamente su di lui, così come è individuale la responsabilità di quei ragazzini che a scuola si lasciano andare a comportamenti inaccettabili, senza che per questo si debba condannare un'intera generazione. Ma ogni occasione di violenza estrema porta inevitabilmente a riflettere.

La prima domanda che mi pongo è: in Italia esiste un terreno fertile in cui coltivare il razzismo? A livello epidermico rispondo di no, ma non si deve nemmeno ignorare che qui da noi - lo sanno anche i sassi - non esiste una vera politica di integrazione. Esiste una forza contraria che mette i bastoni tra le ruote a ciò che servirebbe per creare un clima diverso, capace di fare i conti con i cambiamenti del mondo.

L'uomo non è un vitigno, di cui si può dire che è meglio se cresce nella terra di origine. Gran parte dell'evoluzione del Pensiero Umano deriva dal contatto e addirittura dalla mescolanza di culture diverse, che infrangendo le abitudini inveterate, costringe a nuove riflessioni, a nuove dialettiche e a nuove sintesi. Non dico che alcune concentrazioni etniche in certe zone di città grandi o piccole non possa presentarsi a volte come un problema, ma forse questa «concentrazione» (che a volte ha il sapore del ghetto) è il frutto della poca importanza che si è data alla faccenda, con qualche eccellente eccezione: proprio vicino a Firenze, a San Donnino, molti anni fa Don Momigli si batté come un leone per evitare che gli stranieri formassero, appunto, concentrazioni etniche, e fu avversato a destra e a manca. Uscirono anche dei libri che lo descrivevano come colui che aveva organizzato la repressione contro i cinesi e le deportazioni. Don Momigli è contrario anche «classi etniche» nella scuola: «È bene sempre domandarsi quali siano le conseguenze di una scelta. Se vogliamo una società multiculturale che favorisca le concentrazioni, si fa la classe etnica, ma se vogliamo una società interculturale, la classe etnica non si deve fare». Don Momigli gestisce anche un grande Auditorium, che offre gratuitamente ai musulmani per le loro preghiere, ai metodisti cinesi per celebrare il loro culto e a chiunque altro abbia bisogno di un grande spazio per convegni e riunioni, senza curarsi del loro credo religioso. Insomma, un esempio che dovrebbe essere seguito da tutto il Belpaese... Un paese impreparato che ha lasciato andare le cose come andavano, senza capire la forza e la velocità dell'evoluzione del mondo.

E pur affermando di nuovo che l'Italia (compresa Firenze) non è un paese razzista, devo anche rilevare che non si occupa in modo massiccio e a livello politico di rafforzare l'antirazzismo, di alimentare una vera cultura antirazzista. Qualche anno fa vidi su ARTE un servizio molto interessante: una casa di produzione francese, che si occupava di ciò che da noi viene chiamata «pubblicità progresso», aveva prodotto un filmato in cui si ribaltavano i valori in merito alla questione, mostrando situazioni in cui un razzista dichiarato veniva messo al bando con le stesse modalità con le quali i razzisti trattano gli stranieri. Un esempio fra tutti: una ragazza porta a casa sua il «fidanzato razzista», ma il padre di lei lo caccia via dicendo in malo modo «In questa casa non voglio razzisti!», e sbattendogli la porta in faccia. Mi sembrava una pubblicità geniale, molto diretta e comprensibile, che spingeva a farsi delle domande. Ma purtroppo la casa di produzione non ebbe il permesso di mandarla in onda, perché troppo cruda. Insomma, credo che si debba fare qualcosa non solo per l'integrazione - che sarà inevitabilmente lenta - ma anche per far capire anche ai più ostici che il razzismo è la via più breve e più stupida per sfogare le proprie paure. Il mondo, più che mai oggi, è una piccola palla sospesa nel vuoto. Le persone nascono in un angolo della terra e si spostano, ne hanno tutto il diritto.

Chi ha paura di questo, ha paura della sua ombra. Vorrei concludere con un altro aneddoto, che mi è stato raccontato da una professoressa che lavora in un istituto professionale di Firenze «ad alta concentrazione di stranieri»: tre ragazze fiorentine, invitate a parlare di razzismo, hanno espresso (forse ripetendo ciò che sentivano dire in casa) il loro risentimento verso «gli stranieri», con i soliti luoghi comuni del tipo «vengono a toglierci il lavoro», ecc. La professoressa ha fatto notare alle ragazze che in quella stessa classe c'erano delle «straniere» (marocchine, cinesi, albanesi), aggiungendo che le risultava fossero loro amiche. La reazione delle italiane è stata molto chiara: «Certo che siamo amiche! Ma cosa c'entra questo? Loro le conosciamo!». Ebbene, conosciamoli.

Invito i cittadini di ogni parte d'Italia che non lo hanno mai fatto, a cercare di conoscere i loro vicini di casa stranieri, a guardarli da vicino, magari a scambiarsi ricette e ad ascoltare i loro racconti. La paura è una brutta bestia, e l'arma più efficace per combatterla è la Conoscenza.

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