Foibe, botte, molestie, torture. Le violenze titine dopo la guerra

Abbiamo letto le dichiarazioni giurate inedite che provano le persecuzioni avvenute in Istria fino agli anni Cinquanta

Foibe, botte, molestie, torture. Le violenze titine dopo la guerra

Trieste. Mariti e padri scaraventati nelle foibe, pistolettate, botte, molestie sessuali, carcere, torture ed epurazioni nel nuovo paradiso socialista di Tito. Violenze e soprusi perpetrati dopo la fine della Seconda guerra mondiale, fino gli anni Cinquanta. E denunciati dalle vittime in 909 dichiarazioni giurate davanti ad un notaio a Trieste, dopo la fuga dell’esodo. Una documentazione eccezionale, in gran parte inedita, che fa parte dell’archivio del Cln dell’Istria, il Comitato di liberazione nazionale, composto da antifascisti e democratici, che assisteva i profughi e si opponeva al terrore titino. "C’era la volontà legale di mantenere una memoria certificata di soprusi, violenze, aggressioni subite dalla popolazione istriana dopo la guerra", spiega Barbara Sabich, l’archivista che custodisce la preziosa documentazione presso l’Irci (Istituto regionale per la cultura istriano-fiumano-dalmata) di Trieste. “Non solo memoria storica, ma la volontà che diventi una prova legittima” spiega Sabich sfogliando con cura i fogli delle denunce battuti a macchina, che emergono dal passato per il giorno del ricordo della tragedia delle foibe e del dramma dell’esodo. Prove firmate di un processo che non si è mai tenuto ai crimini dei “liberatori” sul sangue dei vinti e di tanti italiani che non hanno nulla a che fare con il ventennio fascista, ma spesso vengono additati come “nemici del popolo”. Anzi, all’inizio restano nella Jugoslavia di Tito, come Emilia Smoliani, 23 anni, di Dignano che fugge a Trieste nel luglio del 1948. “Mio fratello Ferdinando di anni 17 al tempo dell’occupazione jugoslava dell’Istria si trovava a Pola e lì rimase quando subentrò l’amministrazione anglo americana” si legge nella dichiarazione giurata. Il fratello trova lavoro come inserviente nel corpo della polizia civile della Venezia Giulia sotto controllo alleato. Il 10 luglio 1947 torna a casa dai familiari nell’entroterra istriano. “Quella sera stessa la polizia jugoslava lo arrestò - denuncia la sorella - La mattina del 14 luglio venendo ad avvisarci a casa che mio fratello si era impiccato in carcere”.

“Quella sera stessa la polizia jugoslava lo arrestò - denuncia la sorella - La mattina del 14 luglio vennero ad avvisarci che si era impiccato in carcere”.

Emilia vede la salma “che recava grossi ematomi sulla fronte e aveva profonde ferite e lacerazioni sui polsi sino a lasciar vedere le ossa”. La sorella scoppia a piangere e ricorda che “il suo vicino di cella, Fratti Giovanni, ci confermò il giorno stesso del seppellimento di aver sentito urlare mio fratello mentre lo torturavano”. Per avere accusato i titini di omicidio, Emilia è ricercata e deve nascondersi nei boschi per poi fuggire a Trieste.

Foibe, eliminazioni, arresti a guerra finita

Carmela Del Ben, di Umago, ha perso il marito Libero Stossich prelevato dai partigiani di Tito il 28 aprile 1945 e accusato di essere un criminale fascista. “Era una calunnia perchè egli navigava e non si interessava di politica - racconta nella dichiarazione giurata - Più tardi la pubblica accusa per il distretto di Buie e di Capodistria dichiarava che probabilmente l’infossamento era dovuto ad un errore”. Carmela ricorda che “la salma di mio marito dopo sei mesi venne recuperata nel fondo di una piccola foiba sita nei pressi della sua abitazione assieme a quello di Cesare Grassi e Antonio da Zara”.

Il 12 aprile 1947 la vedova viene arrestata per avere denunciato a Trieste l’infoibatore del marito. “Senza essere sottoposta a processo venni condotta in Jugoslavia a Slovenski-Samac e fui destinata ai lavori forzati” si legge nella dichiarazione davanti al notaio. Dopo quattro mesi, nel carcere di Capodistria, è accusata di “essere una propagandista reazionaria” per la richiesta di giustizia. In seguito rilasciata in libertà provvisoria per le precarie condizioni di salute fugge di notte da Umago, l’8 febbraio 1948, “a bordo di una barca da pesca”.

Mario Racher viveva in una frazione del comune istriano di Buie quando il 28 settembre 1948 verso le 23 “due individui che indossavano la divisa dell’Armata jugoslava ed armati di fucile si presentarono in casa” portando via il padre Antonio e il fratello Modesto di 25 anni. Nonostante le rassicurazioni degli sgherri di Tito i familairi non tornano più e Mario va a cercarli incontrando due comunisti italiani del posto che sbrigativamente gli dicono: “Oramai sono stati buttati dentro”. Essi alludevano ad una voragine denominata “foiba Globinca””. La colpa dell’eliminazione sommaria a guerra finita, senza processo, è che il padre era stato forzato ad arruolarsi nella milizia fascista nel 1944 e il figlio infoibato “aveva appartenuto allo stesso corpo per la durata di un mese”.

Il figlio superstite fugge a Trieste e nella dichiarazione giurata svela il vero “crimine” agli occhi dei titini: “Io e i miei famigliari avevamo sempre un contegno indifferente verso le organizzazioni comuniste alle quali più volte eravamo stati invitati ad iscriverci”.

Le eliminazioni mirate o aggressioni degli italiani rimasti si sprecano come nel caso di Guerino Dubaz, che il 15 settembre 1947 corre in soccorso di alcuni familiari a Buie. Prima chiede la protezione di due titini del Comitato popolare che fanno finta di scortarlo e poi lo abbandonano ai carnefici. “Appena sceso nella piazza di Buie - scrive il fratello - veniva aggredito dai soliti malviventi” e “in seguito alle gravi ferite riportate decedeva alle ore 7” del giorno dopo. Giordano Dubaz denuncia che è stato “assassinato per motivi politici dati i suoi sentimenti ostili all’U.A.I.S. (Unione antifascista italo-slava nda) e al Partito comunista”.

Francesco Reichstein, proprietario della trattoria “Liron” a Capodistria, viene ammazzato a bastonate da una banda di dimostranti titini per aver scioperato contro la Jugolira, moneta dell’occupazione. Antonio Biloslavo, 22 anni, il 29 maggio 1948, uscito da una trattoria di Villa Gardossi, si trova davanti tre uomini mascherati che parlano croato e gli sparano due colpi di pistola “che evitai buttandomi oltre un cespuglio in un fosso”. Giorni prima era stato minacciato da un milite della Difesa popolare di Tito.

Se non li eliminano gli italiani rimasti, ma fuori linea, vengono sbattuti in galera. Maria Vardabasso, insegnante, finisce in cella il 12 agosto 1949 “senza alcun mandato di cattura”. A Trieste, davanti al notaio, dichiara che era “accusata di reati contro il popolo (…) Subii dodici interrogatori durante i quali mi si chiese quali contatti avevo con il C.L.N. dell’Istria”. In cambio della libertà la polizia segreta propone a Maria di “far parte del servizio d’informazione jugoslavo con il nome di Regina” per spiare gli altri insegnanti ed i membri del C.L.N. Lei accetta e una volta liberata scappa a Trieste.

Costretti all'esodo o a consegnare una mucca

Lucia Zucca sul primo momento non capisce che i tre finti contadini arrivati per trebbiare i campi in realtà sono agenti provocatori che vogliono spingere il fratello Vittorio all’esodo per accaparrarsi le terre. Uno dei tre, Lino, è un ufficiale della Difesa popolare. Vittorio non cade nelle provocazioni: “Ti stai arricchendo, sei un capitalista speculatore”. Lino, allora, cambia tattica e molestia sessualmente la sorella Lucia della vittima predestinata. Vittorio non ci vede più e caccia via i provocatori, che tornano “con una guardia popolare armata”. Lucia sente “degli spari, mi sembra 2” e vede cadere il fratello. Vittorio “ancora si muoveva, malgrado avesse un buco sulla fronte dalla parte sinistra”. Dopo la sua morte la sorella viene trattenuta e minacciata per costringerla a dichiarare che si è trattato di un incidente. Lucia rifiuta e scappa a Trieste il 14 settembre 1948.
“Morte agli esuli” gridano l’8 gennaio 1948 a Cittanova gli estremisti filo Tito arrivati sotto casa di Antonia Pausler. “Se entro 24 ore non andrà via da Cittanova, noi non rispondiamo per quello che succederà dopo!” urlano gli attivisti comunisti. “Analoghe minacce erano state rivolte la stessa sera verso altri paesani che che il giorno dopo si affrettavano ad abbandonare” la città istriana dichiara l’esule. Il 10 gennaio 1948 si presenta a casa Ubaldo Varin “un elemento comunista (…) ”Signora Pausler sono venuto a vedere se lei se ne va (…) Mi ha mandato la Difesa popolare”.
Ad Erma Ermacora, sempre nel gennaio 1948, arrivano in villa Teo Zarnich, vicepresidente del Comitato popolare di Verteneglio e il numero due della Difesa popolare, che è una sorta di polizia. “Lo Zarnich mi disse: “Mi è giunto l’ordine di dirvi che entro due ore dovete sgomberare la casa”” racconta Erma precisando “che dovevo sfrattare lasciando ogni cosa al suo posto e che mi era consentito di portare via un cambio di banchieria per me e per i figlioli”. Alle 8 del giorno dopo si presenta un titino armato che intima alla signora “di lasciare immediatamente la villa (…) pena l’arresto”. Al posto di blocco della Difesa popolare sulla strada per Trieste le portano via anche la biancheria.

I casi di esodo forzato sono dozzine, ma colpiscono anche le semplici ruberie ammantate da motivazioni ideologiche. Giorgio Lubiana dichiara sotto giuramento che l’8 gennaio 1948 “si presentavano nell’abitazione di mio padre alcuni elementi comunisti i quali esibendo una carta del Comitato di Buie esigevano la consegna di una mucca”.

Orazio Sacmpicchio, fotografo sordomuto di Capodistria, viene brutalmente picchiato da una squadra di tre uomini per costringerlo ad andarsene: “Mentre due mi tenevano per le mani, uno mi colava con pedate e pugni in varie parti del corpo. Dopo avermi colpito ripetutamente i tre assalitori se ne andarono lasciandomi a terra”.

Ad Ettore Pastrovicchio i poliziotti comunisti impongono il pagamento di 1000 dinari per il trasporto fino al carcere di Rovigno assieme ad altri italiani. Il 13 settembre 1948 li imbarcano tutti sul piroscafo diretto a Trieste.

Epurazioni, voto obbligato e pentimenti

Fra i documenti del Cln dell’Istria custoditi dall’Irci a Trieste spuntano gli odiosi decreti di epurazione. Il 27 maggio 1946 la commissione di Isola sentenzia che Concetto Prelaz, assunto dalla società Arrigoni, viene declassato da “impiegato ad operaio comune” per “continuo contatto con elementi reazionari e atteggiamento antipopolare”.

Il 24 aprile 1950 un esule anonimo denuncia al notaio di Trieste, collettore delle prove dei misfatti, che una settimana prima ad Isola d’Istria “tre agenti titini” lo hanno costretto a recarsi alle urne: “Per il bene di suo figlio e dei sui familiari ti consiglio vivamente di non astenerti dal voto”. Il poveretto si reca al seggio, ma capisce subito che è un gigantesco imbroglio e trova “ancora una fila di persone che attendevano il loro turno e che erano state portate sul posto in seguito alle intimidazioni e minacce dagli agenti titini”. Alla popolazione per convincerla della bontà democratiche del nuovo regime parla anche “il famigerato Nerino Gobbo”, uno dei boia di Tito, infoibatore degli italiani. Quattro giorni dopo il voto farsa l’esule riceve la lettera del Comitato popolare cittadino che gli intima di andarsene per sempre.

La confessione-pentimento di Mario Mazzarol, ex militante comunista, del 10 agosto 1948 è uno dei documenti più interessanti dell’archivio. “Animato da una fede senza limiti sarei stato pronto (…) a fare qualunque cosa per Tito che ritenevo un campione di democrazia, un eroe della lotta antifascista” dichiara l’italiano di Isola, che ha indossato la divisa partigiana nell’ultimo mese di guerra. Delegato di fabbrica comincia a nutrire i primi dubbi con le epurazioni pre stampate che arrivano da Capodistria. “Fui costretto a firmare quelle schede” ammette, ma gli epurati “erano addirittura antifascisti”. Il comunista è profondamente turbato dal pestaggio del leggendario vescovo di Trieste, Antonio Santin, in visita a Capodistria. La mazzata finale è lo strappo di Tito con Mosca nel 1948. Mazzarol si sente pedinato dalla polizia segreta: “Era bastato qualche frase, qualche protesta, qualche intervento a favore di perseguitati per perdere la fiducia di quella banda di terroristi imperanti a Capodistria”. Ad un certo punto arrivano le minacce e il titino della prima ora scappa a Trieste.

“Abbiamo sbagliato grossolanamente e le responsabilità da noi condivise col nazionalismo slavo - ammette nella dichiarazione giurata - non si possono cancellare perchè il popolo, il vero popolo, non può dimenticare quanto ha sofferto”.

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