La Fornero cambia mira: dopo la Cgil i giornalisti

Elsa Fornero sui salari ha detto un’altra cosa vera. Facile, ma vera. Una scoperta dell’acqua calda dopo l’altra, insegnamenti che dà quasi fastidio ricevere, perché, e qui sta il fastidio, lo sapevamo già tutti che in Italia la questione centrale del mercato del lavoro è che si guadagna troppo poco. Ma ci siamo talmente incartati che dobbiamo sentircelo dire come un insegnamento. Qualcuno aveva anche tentato di lanciare campagne politiche. Lavorare di più e guadagnare di più era stato lo slogan della parte firmataria per il rinnovo del contratto Fiat. Ma anche Maurizio Sacconi aveva evocato concetti simili. E ricordo anche una campagna de Il Foglio in questa direzione. Tutto, come per tanti altri casi, rimasto impastoiato nella stasi decisionale della seconda Repubblica. E poi, ovviamente, il professore, il tecnico, chiamato per l’urgenza non ha difficoltà a evidenziare i punti cruciali e a conquistare così, davvero con poco, l’attenzione e, attenti cari politici, a far suo anche lo spazio centrale del dibattito. Ore e ore di talk show sprecate, dichiarazioni a raffica da dimenticare, interventi parlamentari da lasciare alla polvere degli archivi, poi arriva la professoressa Fornero, dice una banalità, e vi stende tutti.
Allora vediamo se è possibile provare ad andare un passo più avanti della banalità. Non dubito che Elsa Fornero abbia argomenti molto ben costruiti e un’ampia serie di evidenze statistiche per sostenere la tesi degli stipendi italiani troppo bassi e per proporre soluzioni, ma proprio per questa ragione forse è bene dare qualche spunto di dibattito. Almeno così qualcuno può provare a rispondere ai professori non con l’ironia (chiamarla maestrina tra l’altro non è una gran battuta) ma con qualche idea in più.
Il nodo è nella rigidità del sistema italiano. Il paradosso per cui in Italia il lavoro a tempo determinato è pagato meno di quello a tempo indeterminato nasce dall’ipertrofia delle tutele (per chi mastica un po’ di finanza è un paradosso simile al caso in cui i tassi di interesse a breve sono maggiori di quelli a lungo termine). La rigidità dei tutelati è tale da debordare e invadere anche il terreno dei non tutelati. Mi spiego meglio: il giovane che entra nel mercato del lavoro ha come traguardo, nella gran parte dei casi, non un giusto riconoscimento del valore del suo contributo ma il conseguimento del contratto a tempo indeterminato. È in nome di quel risultato che pianifica le sue mosse e che accetta anche una lunga serie di sacrifici nella fase iniziale. Il datore di lavoro lo sa e se ne approfitta. Così la tutela futura diventa lo strumento per tenerti, qui e ora, sotto scacco. Una violenza, per il lavoratore, e, a peggiorare le cose, una violenza anche ironica, perché commessa per difenderti, per il tuo bene. Con il danno aggiuntivo che dicevamo prima: si viene pagati meno di quello che determinerebbe il mercato. E non c’è prospettiva di miglioramento, perché la mia parte contrattuale, i sindacati, si batte sempre e solo sul versante delle tutele. E mi mette ancora di più nei guai.
Ma non finisce qui. In Italia a rendere strutturalmente sottostimati i salari a tempo determinato concorre anche una specie di tassa sulla scarsa formazione. La differenza tra ciò che si guadagna e ciò che si dovrebbe guadagnare è data anche dal pagamento di questa tassa impropria. Il lavoratore sa, o fa finta di sapere, di non essere pienamente pronto all’impiego, il datore di lavoro, ancora una volta, ha facilità ad approfittarsene. E il gioco è fatto.
Le soluzioni? Meno tutele daranno più tutele. Senza il traguardo (ecco in questo caso davvero un totem) dell’assunzione ipertutelata anche i giovani lavoratori saranno in grado di concentrare il loro potere contrattuale (per quanto poco sia) sul «qui ed ora» e non su un futuro radioso ma improbabile da assunti intoccabili.

Il cammino verso l’uniformità del contratto (con le regole sostanziali di tutela, quelle sane, tra le quali la prima è il compenso economico in caso di licenziamento) e verso l’uniformità del trattamenti assistenziali (con in testa il sussidio di disoccupazione) libererà potere negoziale e consentirà di raddrizzare il paradosso del tempo determinato. Fuori da questo cammino c’è poco da indignarsi.

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