Siamo in tanti ormai. Ma non c'era nessuno quando io iniziai a difendere il paesaggio minacciato dall'eolico. Già alla fine del secolo e del millennio scorsi. Apparivano foreste di pali, soprattutto in Puglia, nella provincia di Foggia, a Candela, a Sant'Agata, ad Accadia, a Lucera, a Troia, e in Sicilia, ovunque, da Palermo a Mazara del Vallo. All'epoca capirono esponenti di Italia Nostra, come Carlo Ripa di Meana e Oreste Rutigliano. Oggi se ne sono accorti alcuni abitanti illustri in Umbria, nel Lazio e in Toscana, regioni prevalentemente risparmiate. Ma la Tuscia già era minacciata. Pochi giorni fa è partito un appello indirizzato al presidente della Repubblica firmato da distratti (fino a ieri indifferenti) intellettuali per difendere Orvieto da pale alte quattro volte più del duomo della città. Mi fa piacere che all'improvviso la coscienza di una vera e propria tragedia si è estesa a tante persone sensibili, che così esordiscono: «Di fronte all'attuale crisi climatica, la ricerca di fonti di energia alternative rispetto a quelle fossili è sicuramente uno degli obiettivi più urgenti da perseguire con appassionata determinazione. Ma questa transizione deve essere guidata in maniera sapiente anche e soprattutto in relazione alle radicali e irreversibili trasformazioni che può determinare nei territori».
Come si chiarisce nell'appello (sottoscritto da cento intellettuali e personaggi come Isabella Rossellini, Claudia Cardinale, Marco Bellocchio, Luca Guadagnino, Gabriele Salvatores, Luca Marinelli, Valeria Golino, Susanna Tamaro, Ernesto Galli della Loggia, Dacia Maraini, Teresa Ciabatti, Alice Rohrwacher), ciò che è già accaduto in tante parti d'Italia rischia di investire anche il Lazio e l'Umbria. Non sembra che la politica italiana, anche nelle spesso ossessive e ripetitive proposte dei partiti rispetto al futuro e rispetto alla crisi energetica, abbia tenuto conto di queste riflessioni di John Kenneth Galbraith, il grande economista americano che in The affluent society metteva in discussione i valori della società americana. Galbraith sostiene che gli Stati Uniti erano diventati ricchi in merci di consumo, ma poveri nel campo dei servizi sociali. L'opera introduce il concetto che in italiano è tradotto con la formula «società opulenta». Con la stessa chiarezza, analizzando il boom economico, a partire dagli anni '60, dell'Italia, aveva capito il valore della bellezza, della sua forza e della sua unicità per l'economia italiana.
Da lì bisogna ripartire, il vantaggio dell'Italia è enorme. Valore primario della bellezza è la sua integrità. È per questo che gli attacchi subiti, e quelli annunciati, dal paesaggio italiano sono ferite violente. La bellezza produce energia. È arrivato il momento di dire che il tema, sbandierato nei programmi di tutti i partiti, delle «rinnovabili», va risolto salvaguardando l'integrità dei luoghi e i terreni agricoli. Una semplice soluzione: installare i pannelli fotovoltaici su tutti gli edifici costruiti negli ultimi 60 anni, condomini, magazzini, ville, case popolari. Partendo da un dato quasi sconosciuto, cioè che gli edifici innalzati in Italia sono 26 milioni, eretti dal VII-VI secolo a.C. a oggi: 12 milioni dai templi di Segesta e di Paestum fino al 1959 (quando Tommaso Buzzi costruì a Sabaudia l'ultimo edificio classico, la Villa Volpi di Misurata) e 14 milioni tra il 1960 e oggi. In larga parte edilizia selvaggia senza volto e senza forma. Sui tetti di questi edifici i pannelli non creerebbero nessuna distonia e, tantomeno, la cancellazione del paesaggio. Parimenti, un numero quasi illimitato di pannelli e perfino qualche pala eolica (da me condannata irrevocabilmente) potrebbero essere installati nello spazio divisorio tra le corsie nelle interminabili autostrade italiane. No. Si preferisce, talvolta sconfessando le Soprintendenze e i comuni consapevoli, occultare il paesaggio agricolo, smettere la coltivazione di viti ed ulivi e sfigurare l'integra bellezza della natura.
Con le pale eoliche, poi, si compiono scempi costanti in Puglia e Basilicata. L'ultimo episodio è a Montecastrilli con un altro appello solitario del sindaco che chiarisce: «La nostra comunità si trova di fronte alla prospettiva di vedere le dolci colline umbre, con la loro bellezza incontaminata, coperte da pannelli fotovoltaici. Un intervento che equivarrebbe, metaforicamente, a coprire Piazza della Signoria a Firenze o la Fontana di Trevi a Roma... Il Comune di Montecastrilli fa parte dell'Area Interna Media Valle del Tevere e Umbria meridionale... La minaccia di un progetto che potrebbe distruggere tutto ciò che abbiamo costruito è reale».
Mattarella sembrerebbe aver già risposto: «Gli insulti al paesaggio e alla natura oltre a rappresentare un affronto all'intelligenza, sono un attacco alla nostra identità». Non c'è «transizione ecologica» (formula minacciosa e infelice) senza rispetto per la nostra ricchezza culturale e paesaggistica. Continua Mattarella: «Quante volte abbiamo ascoltato il vocabolo bellezza associato a Italia? Per dare profondità a questo straordinario abbinamento di parole occorre fare ricorso al senso che i nostri padri costituenti seppero dare a una terza parola: cultura. Accanto alla cultura c'è il valore della ricerca, del paesaggio, del patrimonio storico e artistico, tutti beni da promuovere e tutelare». Il monito del presidente dovrebbe costringere il governo a pensare che il paesaggio nella sua integrità è prezioso come il più importante dei monumenti ed è una condizione dello spirito, uno stato d'animo: si pensi a Goethe, a Humboldt e a Burckhardt in Germania, dove si è sviluppata l'idea dei «Denkmäler der Natur, der Kunst, der Geschichte», che pone i monumenti della natura sullo stesso piano di quelli della cultura e della storia. E di «paesaggio» parla l'articolo 9 della nostra Costituzione, non di «ambiente».
Paolo Carpentieri osserva che oggi assistiamo «allo scontro tra due visioni opposte delle cose: da un lato, l'ambientalismo industriale globalista, che vede all'attacco imprese industriali che, sventolando il vessillo di Kyoto e della lotta al mutamento climatico, perseguono loro immediati e concreti ritorni economici di profitto e mirano a realizzare parchi eolici sull'Appennino e campi di pannelli fotovoltaici nelle pianure; dall'altro lato chi ama e difende la qualità dei paesaggi agrari e montani italiani, nei luoghi che faticosamente vorrebbero riscoprire e rivalutare le loro radici culturali, la loro identità, legate alla terra, all'agricoltura, ai mestieri tradizionali, e che puntano a un tipo di sviluppo diverso, più equilibrato, basato sulla rivitalizzazione degli antichi borghi, e perciò difendono il contesto paesaggistico. È in questi ambiti che si manifesta in tutta la sua evidenza la scivolosità del concetto evanescente e intrinsecamente contraddittorio di sviluppo sostenibile. Ed è qui che i valori in campo confliggono, poiché bisognerebbe capire quale sostenibilità si intende perseguire, se la sostenibilità di uno sviluppo locale autentico, legato alle comunità di heritage di cui parla la Convenzione di Faro, fondata sulla riscoperta della autentica e profonda identità culturale di quei territori, o di una sostenibilità globale che, intanto, qui ed ora, si concretizza nello stravolgimento di una tradizione culturale locale».
È questo il tema di cui si sono resi conto, troppo tardi, gli intellettuali che oggi difendono Bolsena
e Orvieto. Gli auguriamo di ottenere soddisfazione, ma forse avrebbero dovuto partire prima, quando io ero «vox clamans in deserto». Era l'annuncio, in luoghi lontani, di quello che sta accadendo ora in quelli più amati.
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