Gambaga, il villaggio dove l’Africa deporta le streghe

Tutte le ragazze «strane» del continente arrivano qui. Oggi sono duecento. È il loro ultimo viaggio: non torneranno mai più indietro

Giuseppe Fumagalli

da Gambaga (Ghana)

«Benché i più perspicaci giudici delle streghe, e persino le streghe medesime, fossero persuasi che la stregoneria costituisse una colpa, purtuttavia la colpa non esisteva. Così accade per ogni colpa», scriveva Nietzsche ne La Gaia Scienza.
Là dove colpe inesistenti tengono ancora in vita la stirpe delle streghe e dei loro implacabili cacciatori, le parole di Nietzsche sono valide anche oggi. Valide e verificabili. Bisogna solo andare in Africa, scendere sotto il Sahara e arrivare in un villaggio di nome Gambaga, poi, come un reality show, calarsi in una dimensione inventata, che senza ragione di esistere, va avanti da due secoli e dopo aver superato le soglie del terzo millennio chissà per quanto ancora continuerà. Gambaga è il villaggio delle streghe. Il più grande e il più famoso di tutta la fascia tra il Sahara e l’Equatore. È ficcato nello spigolo nord est del Ghana, in fondo a una pista che corre al centro di un altopiano roccioso che si allarga fino in Togo e Burkina Faso. È un villaggio con centinaia di capanne, mura rotonde di terra rossa e tetti in paglia o lamiera arrugginita. Ogni tanto si fermano le carovane di jeep di Alberto Nicheli e Roberto Cerea, due italiani che stanno aprendo al turismo le frontiere più remote del continente nero. «In un anno abbiamo già accompagnato due spedizioni di antropologi americani e tedeschi - dice Cerea -, il villaggio è uguale a migliaia di altri villaggi, ma le streghe lo hanno reso famoso in tutto il West Africa. Ora comincia a esserlo anche nel mondo».
A sud del Sahara, fino alle coste del Golfo di Guinea, se una donna è accusata, talvolta solo sospettata, di avere poteri sovrannaturali e di utilizzarli a fin di male, Gambaga potrebbe essere la sua più probabile destinazione finale. Dall’inizio dell’800 è stato così per migliaia e migliaia di donne. In lingua locale le chiamano kukuo, streghe. Kukuo possono essere ragazzine dall’aria spaurita, madri di famiglia, o vecchie sdentate e decrepite che a malapena si reggono in piedi. Possono arrivare dai villaggi vicini ma anche dalla Nigeria, dal Mali, dalla Guinea, dopo viaggi massacranti di migliaia di chilometri. Dopo quel viaggio, di solito, non ne fanno altri. Quando arrivano a Gambaga è per non uscirne più. Vengono accompagnate in una zona separata dal resto del villaggio, al Kukoa, il campo delle streghe. Oggi ci vivono circa 200 donne. Nel 1999 ce n’erano 400. A ogni donna viene assegnata una piccola capanna. Se lo desidera, sarà sua per sempre. Lì potrà vivere e lavorare in pace, senza fare del male e senza subirne. Perché a Gambaga le streghe smettono di essere streghe e diventano persone normali. A renderle inoffensive è il Naaba, capo del villaggio. Ha conoscenze ed energie sovrannaturali che sono arrivate a lui attraverso il padre, il padre di suo padre, un Naaba dopo l’altro, indietro nella catena generazioni, oltre le guerre con le tribù vicine, oltre i coloni inglesi, fin dove il tempo scolora nella leggenda. Il Naaba non può o non vuole spiegare. Agitando un bastone coperto di gri-gri (amuleti ndr), mormora una parola nella sua lingua, il mamprusi. Power, traduce uno dei vecchi seduti al suo fianco. Potere.
Davanti allo slargo dove i tam tam parlano alla comunità di Gambaga e a tutto il popolo dell’altopiano, seduto su una nera pelle di capra, nella penombra di una capanna dove riluce solo il suo sguardo immobile, Yahaya Wuni, ultimo Naaba di Gambaga, attorniato dagli anziani del villaggio, aspetta le streghe. Il più delle volte vengono accompagnate da intere delegazioni, con gruppi di familiari e gli stessi dignitari che le hanno giudicate colpevoli di stregoneria. Quando arrivano sole, denutrite e con tutti i loro averi stretti in un fagotto di stracci, significa che sono fuggite. Le organizzazioni umanitarie parlano di Gambaga come di un lager da chiudere immediatamente. Ma per tante donne Kukoa ha significato la salvezza. «Non teniamo prigioniero nessuno», dice il Naaba, «le donne sono libere. Possono rimanere o andarsene. Se stanno qui lavorano nei nostri campi e danno a noi la metà del raccolto. Se decidono di andarsene sanno quello che rischiano. I loro poteri qui sono neutralizzati, ma appena escono tornano ad essere attivi». Come fossero cellulari. A Gambaga il network della stregoneria non ha copertura. Non c’è campo, non si trasmette, non si riceve e la cometa sulfurea del maleficio non parte, rimane dov’è, svanisce nel nulla. Ma fuori Gambaga la rete funziona. Qualche volta le kukuo sono prese da nostalgia. Raccolgono tutto quello che hanno e se ne vanno. Tornano al villaggio d’origine e mentre abbracciano i figli o incontrano i familiari attorno a loro si riattiva un network invisibile fatto di odio e rabbia. Trovano intere comunità, pronte ad accusarle di ogni nefandezza e pronte a eliminarle come causa di tutti i mali. «Se tornano noi le accogliamo ancora», dice il Naaba, «ma quando non le vediamo tornare sappiamo che possono aver fatto una brutta fine».
Basta un evento negativo, un lutto, una semplice malattia per scatenare il linciaggio. Come quello discusso nel settembre 2000 alla Corte d’assise di Lome, capitale del Togo. Quattro uomini accusati di aver ammazzato a bastonate una vecchia, si sono difesi dicendo che non era la vecchia che volevano uccidere, ma un avvoltoio. Un immondo uccellaccio del malaugurio che andava a posarsi su tutte le capanne dove si udivano gli strilli di un neonato. E ogni volta il bambino si ammalava, talvolta moriva. Finché un giorno, bersagliato da una gragnuola di sassate l’avvoltoio non è riuscito a levarsi in volo, è rotolato a terra e mentre moriva sotto i colpi di bastone degli uomini si è trasformato nella vecchia. Decine di persone hanno confermato la versione degli imputati e il reato di omicidio è stato derubricato in esercizio abusivo della caccia.
«No, meglio non rientrare», dice Kougusba Gazere, veterana di Gambaga, eletta dalle donne di Kukoa a rappresentarle davanti al capo villaggio. «Se siamo qui è perché abbiamo fatto del male. Inutile tornare, cercare un perdono e poi ricadere ancora nelle stesse cose. Qui possiamo stare tranquille. Le più fortunate ricevono le visite dei familiari. Ma è meglio che anche quelli non si trattengano troppo. La nostra è come una malattia e i bambini sono quelli che più di tutti rischiano il contagio. Alla fine stiamo bene tra noi. Parliamo, scherziamo, diciamo tutto quello che non va e che può essere migliorato. Il Naaba ci ascolta e se può ci aiuta».
Le streghe, al mattino partono per andare nei campi e nel villaggio rimangono le donne più anziane che non riescono più a muoversi. Come Lare Dom, che ha il volto solcato da rughe profonde e non ricorda quando è nata, quanti anni ha e quando è arrivata a Gambaga. «Devo averne 80, forse anche 90», continua con un filo di voce, muovendo le mani deformate dall'artrosi, «avevo anche un bel po’ di figli, sette o otto, e ora avrei avuto il diritto di farmi servire da loro. Non ricordo perché mi hanno portato qui. Comunque mi piace. Faccio quello che facevo da bambina. Stendo ad asciugare il miglio e le noci di palma, intreccio i vimini, tengo pulito, accendo il fuoco e preparo da mangiare anche per le altre. Credo di meritare l’ospitalità del Naaba». Una donna e una ragazzina ascoltano la vecchia. Il reality di Gambaga va avanti. Tutti i giorni l’Africa genera nuove streghe e altre ne cancella. Donne da seppellire, vive o morte che siano.

Quando le streghe muoiono, vengono avvolte in un panno di cotone e vengono portate a riposare in un campo fuori dal villaggio dove il vento e le piogge fanno presto a cancellare i tumuli di terra e del loro nome maledetto presto si perde la memoria. Lare Dom non ha paura. Nella sua lingua, l’Ashanti, morire si dice «tornare al villaggio». Coprendosi la bocca ride. Dice che ha voglia di tornare al villaggio. Sa che questa volta nessuno le farà del male.

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