In questi ultimi anni lettori e critici di García Márquez hanno fedelmente atteso l’annunciata pubblicazione del secondo volume del libro delle memorie Vivere per raccontarla (2002), giustificando il ritardo con la grave malattia, poi felicemente superata, che aveva colpito Gabo. Nel frattempo è uscito Memoria delle mie puttane tristi che rende omaggio al premio Nobel giapponese Yasunari Kawabata, in particolare alla sua opera La casa delle belle addormentate. Il breve racconto in cui un vecchio novantenne, in occasione del suo compleanno, si regala una notte d’amore con un’adolescente vergine, nonostante lo straordinario successo di vendite, aveva lasciato molti dubbi negli estimatori di García Márquez, insinuando il sospetto di un inaridimento della vena creativa dell’anziano scrittore.
Restava sempre grande l’attesa per il seguito del romanzo della vita, legato al periodo dell’affermazione e consacrazione definitiva nel campo delle lettere. Nuova delusione era l’uscita del libro di articoli e interviste A ruota libera 1974-1995 e ora la recente pubblicazione di Non sono venuto a far discorsi (traduzione di Bruno Arpaia, Mondadori, euro 18, pagg. 169), frutto di un’operazione editoriale che sembra attingere al fondo del barile per mantenere viva l’immagine di uno scrittore da anni chiuso in un ostinato silenzio, interrotto solo dalla partecipazione a qualche importante incontro culturale o a conviviali appuntamenti con gli amici di Città del Messico, Cuba o della nativa Colombia.
Il nuovo libro segue di poco l’assegnazione del Premio Nobel della Letteratura a Mario Vargas Llosa, compagno di un tempo e poi irriconciliabile nemico. Si tratta probabilmente di mera coincidenza, anche se è difficile non associare l’evento ai nomi dei due protagonisti del romanzo latinoamericano, entrambi coronati dal premio Nobel, ma divisi da opposte ideologie; quella liberale sostenuta dallo scrittore peruviano in contrasto con la militanza marxista vissuta da García Márquez.
Non sono venuto a far discorsi rivela, fin dal titolo, la nota riluttanza - o meglio l’avversione - di Gabo nei confronti dell’esposizione oratoria, sempre rifiutata a favore della scrittura; una frase mutuata dall’avvertenza che il diciassettenne Márquez fece nel saluto di commiato ai compagni del liceo di Zipaquirá il giorno della consegna del diploma. Si tratta di 22 testi preparati per essere letti davanti al pubblico e disseminati in un arco di tempo che va dal 1940 al 2007; l’ultimo discorso è quello pronunciato di fronte ai membri dell’Accademia della Lingua spagnola e ai reali di Spagna in occasione del suo ottantesimo compleanno. Si tratta di dissertazioni, conferenze, discorsi di diversa natura ed impegno che spaziano dal tema geografico, direi campanilistico, riprodotto dal giornalista Juan Carlos Zapata sul giornale El Espectador di Bogotà il 3 maggio 1970 («Gabo nacque a Caracas, no ad Aracataca», ora pubblicato con il titolo «Come ho iniziato a scrivere»), fino a comprendere i due interventi ufficiali, «La solitudine dell’America latina» e «Brindisi per la poesia», tenuti durante la cerimonia del Nobel a Stoccolma. Né mancano i motivi ecologici e il discorso sulla professione giornalistica, amata e praticata con successo dallo scrittore («Giornalismo: il miglior mestiere del mondo»); e ancora alcune testimonianze per il conferimento di premi letterati o i festeggiamenti di personaggi politici o semplicemente di amici, tra cui spicca l’inseparabile Álvaro Mutis, con cui Gabo confessa di aver stretto un patto di ferro: «non parlare in pubblico l’uno dell’altro, né bene né male, come un vaccino contro il vaiolo degli elogi reciproci». Ma Álvaro, per primo, viola il «patto di sanità sociale», perché non apprezza il barbiere che l’amico gli aveva raccomandato. Ecco allora il piatto freddo della vendetta: «Il mio amico Álvaro Mutis», letto nella cena di gala per il suo settantesimo compleanno.
Le pagine dei discorsi sono dunque la testimonianza orale degli interessi letterari, e della passione ideologica e civile, espressi da García Márquez; la loro rilettura, a distanza di anni, gli consente di scoprire «come sono cambiato e come mi sono via via evoluto come scrittore», aiutandolo a comprendere meglio il senso della vita. Sono motivi frammentari dimenticati nel tempo, il cui filo unitario è dato dalla centralità dell’io e dal carattere peculiare di una scrittura che non perde la sua oralità né i modi diretti del dialogo.
Tale componente, antiufficiale e antiretorica, è espressa dalle continue intrusioni del parlato e ancora da una mimica lessicale che guarda all’ascoltatore, di fronte al quale resta immutato l’atteggiamento di imbarazzo di Gabo, che vuole essere solo scrittore. Intanto il fedele lettore continua a chiedersi quanto dovrà ancora attendere per leggere il secondo volume delle memorie.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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