Lo Stato Italiano non stampa più le marche da bollo, lascia che siano i tabaccai delegati a farlo, poi però li manda sotto processo per aver stampato le marche da bollo. Situazione tipica di una legge quantomeno poco chiara e soprattutto della costante accusa implicita che pende sui cittadini, in particolare sui commercianti. In questo caso l'accusa rivolta al tabaccaio è quella di peculato, sostanzialmente un furto ai danno dello Stato, quasi un'evasione preventiva. Per correttezza va detto che, almeno alla fine della disavventura, lo stesso Stato, questa volta ammette l'errore e assolve il tabaccaio. Il quale, per non aver fatto nulla, si trova comunque ad aver vissuto un tormentone lungo sette anni, un processo e le relative spese.
Tutto nasce quando l'Agenzia delle entrate della Liguria contesta a un tabaccaio genovese, sempre puntuale nei pagamenti e nei rapporti con l'erario, di aver stampato marche da bollo senza pagare il corrispettivo allo Stato. In particolare «dall'8 marzo al 18 aprile 2006». Un mesetto durante il quale, secondo il pubblico ministero che ha ricevuto la segnalazione «con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso si appropriava» di denaro dovuto allo Stato. Roba da ergastolo? Semplicemente esecuzione di quanto previsto dal «prelevamento virtuale» in base alla convenzione stipulato con l'Agenzia delle Entrate per stampare i «contrassegni sostitutivi» delle marche da bollo.
La procura però la pensa diversamente e manda a processo il tabaccaio, che per simili accuse, cioè per aver lavorato per conto dello Stato, rischia dai 3 ai 10 anni di carcere. Inizia il calvario giudiziario dell'esercente, che si affida all'avvocato Mario David Mascia, e chiede di essere giudicato con rito abbreviato. Abbreviato (non giuridicamente parlando) per modo di dire, visto che arriva al 2013 prima di ottenere l'udienza preliminare.
Davanti al giudice il tabaccaio si sente ripetere le accuse. In particolare gli viene contestato il fatto che non aveva pagato le marche stampate. E qui la prima obiezione dell'avvocato è semplice: il fatto che le marche vengano stampate non significa automaticamente che vengano vendute. L'accusa fa notare allora che l'Agenzia delle Entrate aveva mandato delle raccomandate per chiedere il pagamento dei contrassegni stampati tra marzo e aprile. E al giudice viene puntualmente dimostrato che il 12 giugno e il 6 luglio sono state versate le somme dovute. Tutte le altre obiezioni trovano poi una risposta plausibile. Nel periodo in cui era stato peraltro accumulato il «debito», il titolare della tabaccheria era all'estero per partecipare a gare sportive e nell'esercizio era presente la madre. Non solo, il fatto che fossero state stampate numerose marche non ancora richieste dai clienti era semplicemente legato al fatto che per evitare di far attendere gli stessi clienti era stata creata una scorta di bolli «ovviamente custoditi in luogo sicuro e con le dovute cautele».
Tutte considerazioni che hanno portato il giudice Ferdinando Baldini a riconoscere l'inesistenza di un reato contestato al tabaccaio. «La sentenza di assoluzione - dichiara con gisuta soddisfazione l'avvocato Mario David Mascia riconosce che dal mero dato della stampa dei contrassegni, significativamente denominata prelevamento virtuale dalla stessa convenzione di categoria, non può sic et simpliciter ricavarsi la prova dell'effettiva riscossione del loro controvalore pecuniario e quindi della relativa appropriazione. Inoltre il giudice in effetti ritiene un dato tutt'altro che incontrovertibile quello relativo al quantitativo dei contrassegni rivenduti alla clientela ed al conseguente effettivo incasso ottenuto».
La conclusione della sentenza di assoluzione restituisce al cittadino-tabaccaio soprattutto il diritto a non essere considerato un ladro ai danni dello Stato solo per aver pagato il corrispettivo due mesi dopo la stampa della marche, specie di fonte a uno Stato che non paga i propri debiti per anni.
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