"Giù le mani dai Måneskin e da tutte le band italiane"

Il direttore di Radio Rock entra nel dibattito su Damiano e soci: bluff o grande gruppo, hanno riacceso l'interesse

"Giù le mani dai Måneskin e da tutte le band italiane"

Ho letto con interesse la nuova, eterna polemica sui Måneskin, riemersa grazie a Ringo e poi ripresa da Daniele Suraci, direttore artistico di Radiofreccia. E, come riflettevo ad alta voce ieri mattina in diretta nel The Rock Show, la trasmissione che conduco da 20 anni, noto con piacere che l'aver riportato un dibattito musicale al centro dell'interesse mediatico e culturale è già la prima grande vittoria della band romana. Prendere posizione sul fatto che siano grandi musicisti o un bluff insopportabile ha oscurato persino l'eliminazione dell'Italia ai prossimi mondiali. Ovvio che questo dipenda dalla radicalizzazione di ogni scontro di cui il nostro Paese è vittima da anni, ma anche dal fatto che da molto tempo non esisteva un centro d'attenzione così forte all'interno della musica italiana. Ai pur illustri interlocutori, però, faccio un'obiezione di sostanza. Quella di Ringo, direttore artistico di Virgin Radio, mi appare come una posizione ideologica che conosco bene e riassumibile nella sua affermazione «Il rock ha leggi ben precise, integraliste, devi rispettarle. Uscire da un talent come X Factor non è rock». Una considerazione che non ha nulla di musicale, se lo lasci dire da chi, con Radio Rock, ha scoperto band come i Mutonia prima che arrivassero i talent e che non valuta - anche e soprattutto per le scelte di alcuni network, che rifiutano per principio la musica italiana e, spesso, anche molta della produzione internazionale degli ultimi decenni - che X Factor è tra i pochi palchi disponibili per band giovani che abbiano l'ambizione di parlare a centinaia di migliaia di persone. E questo snobismo ostentato e ostinato nei confronti del rock italiano, che Radio Rock ha sempre rifiutato, è il centro di un dibattito che mi fa apprezzare la posizione di Suraci, che però in fondo con Radio Freccia che fa? Manda i Måneskin, è vero, come illustre eccezione in un palinsesto musicale tutto straniero, sì, ma solo perché ha avuto successo all'estero. Una scelta di rimbalzo, che conferma una politica discutibile, quella di ignorare un panorama importante e potente come il rock italiano.

Conosco bene questa dicotomia sterile da conduttore radiofonico ma anche da station manager, perché uno zoccolo duro di ascoltatori della nostra emittente - che ha quasi 40 anni - ha contestato fortemente alcune delle nostre scelte recenti: i Måneskin in alta rotazione. Ma poi come si fa a definirli terrificanti tout court? Zitti e buoni, Coraline, la cover di Beggin', Lividi sui gomiti sono pezzi radicalmente diversi, per genere e impostazione, e infatti Ringo li definisce poser, non mediocri. Così come Rancore e un paio di pezzi di Salmo mandati dai nostri dj più incoscienti, fino ai duri e puri come Andrea Ra o le ibridazioni musicali e intellettuali di band come Calibro 35 e Zen Circus per e con cui abbiamo lottato per anni, quando il successo era ancora un miraggio per loro. Mentre il mondo si strappava i capelli per l'epidemia di trapper - e anche lì, non generalizziamo: ci sono realtà interessanti che i parrucconi ignorano per fare di tutta erba un fascio, come un tempo si faceva col rap, ora genere rivalutato e nobile - Radio Rock cambiava pelle per rimanere fedele a se stessa e al rock. Perché il rock è un'attitudine, al rinnovamento e alla rottura delle regole, al guardare al futuro, allo sconfinamento anche geografico dal piccolo mondo antico di chi ama dire solo «il rock è morto» e magari si accapiglia sulla data (raramente posteriore al 1979, infilandoci dentro il punk che il rock peraltro voleva ucciderlo davvero).

Viva i Måneskin, che come dice Manuel Agnelli, insegnano alle band emergenti a pensare in grande, a immaginarsi su un palco a New York, viva il rock che sa integrarsi con la modernità, creativa e comunicativa. Qual è il torto di questi ragazzi? Essere capaci di esportare non solo dell'ottima musica - perché può piacere o meno il loro pop rock, ma parliamo di artisti di alto livello - ma anche l'immagine del rocker del terzo millennio che, a differenza di molti ascoltatori, appassionati, critici e sì, anche direttori artistici (tutte categorie in cui il ricambio generazionale è stato ridotto e sterile, a differenza della musica, pensate proprio alla giovanissima età media del gruppo capitolino), hanno saputo ben interpretare il modo giusto per stare in scena, su e giù dal palco? Damiano David che mette il reggicalze o con il look o i post sui social viola le sacre leggi del rock? Siamo sicuri? Davvero non pensate che John Lennon e Yoko Ono la loro celebre foto nel Dorset, nudi per la pace, non l'avrebbero postata, nel 2022, su Instagram? E un giovane Mick Jagger per look e atteggiamenti non lo avremmo definito, ora, un poser? Per non parlare di Iggy Pop o David Bowie che sulla loro immagine hanno costruito un'epica oltre che un'estetica. Certo, anche io aspetto i Måneskin al varco, attendo ulteriori salti di qualità e una definizione della loro identità rock ancora più coraggiosa, ma l'obiettivo delle polemiche e il dibattito è sbagliato.

Perché ci si accapiglia sul successo di questi ragazzi - sembra la famosa maledizione di Muccino che disse una volta «gli italiani ti perdonano tutto, tranne l'essere un vincente» - invece di cercarne altri, come ogni giorno fa la nostra emittente in beata solitudine? A volte, consentitemi la battuta, faremmo bene a stare zitti e buoni e lavorare perché ci siano dieci, cento, mille Måneskin. E non per abbattere gli unici che ci provano, e lo fanno pure alla grande.

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