Giù le mani dall'America

L’America è un’idea di libertà, Al Qaida una setta di assassini. L’ospite è qui e non abbassa mai lo sguardo. Neppure quando incrocia la statua di Minerva, che dalla notte dei tempi governa i destini della Sapienza. Quest’uomo che tiene in scacco il Mediterraneo, con quella foto di Al Mukhtar sul petto, non ha mai avuto troppo rispetto per la maledizione degli dei. La fortuna è dalla sua parte, come un predestinato, che guarda al mondo con l’aria sfrontata del capopopolo e l’arroganza di chi tiene il tuo respiro appeso ad un corda. Lui, il figlio del deserto, si è preso in dote il vento, l’energia, l’oro nero e il gas. Dicono che i gioielli sacri della Libia, i monili più antichi, siano stati disegnati dagli ebrei sefarditi. Questa è una storia che al colonnello Gheddafi non è mai piaciuta. In quelle città nel deserto, dice lui, i sefarditi erano ospiti e sono andati via. Li ha cacciati lui. E ora è bene che non se ne parli. Il figlio del deserto è anche questo. È la libertà venduta come un miraggio, lontano. I rapporti tra l’Italia e la Libia non sono più quelli di una volta, e questo è un mezzo miracolo di diplomazia. Lì, dall’altra parte del Mediterraneo, c’è quest’uomo che ci ha odiato, che non ha mai dimenticato gli orrori del colonialismo. È un uomo che ha sognato la vendetta, che ci ha sputato addosso la polvere del deserto. È tutto passato. E se ora è qui, dice lui, è perché in fondo l’ha avuta. L’Italia ha chiesto scusa. L’Italia ha bisogno di lui. L’Italia è una storia sepolta con una stretta di mano. I morti hanno sepolto i morti. «Neanche il peso del mondo in oro può risarcire il popolo libico». Gheddafi vuole che il mondo chieda scusa. Tutti. L’Italia e l’America. Tutti tranne Al Qaida. Loro, i terroristi, vanno capiti. L’uomo che chiama libertà il terrore ora è nostro ospite, in questa città eterna, che ha (...) [TESTO-INFRA](...) [TESTO][/TESTO][/TESTO-INFRA]visto passare milioni di ex nemici, qualcuno da sconfitto, tanti da conquistatori, alcuni accolti con un segno di pace. Gheddafi è tra questi. Gli affari con lui sono buoni. Il gas ci serve e poi guarda le nostre coste, vecchi colabrodi dove passa di tutto. Lo sa l’Italia e lo sa Gheddafi. Il patto del Mediterraneo è una firma saggia. Ma Gheddafi non ci può chiedere di più. Non possiamo rinnegare l’America. L’ospite, dicono, è sacro. Ma fino a che punto? Il colonnello Muammar Gheddafi ha lasciato divisa e medaglie nella tenda berbera. Qui non ha bisogno di questi simboli. Arriva con la giacca bianca, la barba incolta, come un attore, come un istrione, un bicchiere di vino mentre parla e muove le mani, cercando l’applauso. Dice: l’America è come Al Qaida. Dice: il terrorismo è colpa del colonialismo. Dice che l’America vuole conquistare il mondo. Dice, dice, dice. È l’ospite che straparla in casa tua. L’America il figlio del deserto l’ha vista da un angolo di Mediterraneo, quando lui cercava un posto nel mondo e non si faceva scrupolo di coprire i terroristi, quando gli dava porto e riparo. Tutto questo accadeva prima dell’11 settembre, prima che le torri cadessero e l’America capisse che il mondo non era più diviso in due, ma i nemici colpivano come fantasmi, tanti, piccoli, segreti, disposti a tutto, anche a morire. L’America ha ancora paura di questi nemici invisibili e li sta cercando ovunque, anche negli angoli più nascosti della terra. È la sua guerra strana, che per qualcuno odora di Vietnam, e ti porta in Irak e in Afghanistan, ti fa guardare con sospetto l’Iran dei sacerdoti neri e la Siria, o quel rimasuglio comunista che si chiama Corea. La Libia da tutto questo si è tirata fuori. Ha detto, davanti al mondo, non sono uno Stato canaglia. È anche per questo che oggi con la Libia si possono fare affari. Non è un pericolo. Non lo era per Bush, non lo sarà per Obama. Gheddafi traffica con i dollari, sotto i suoi abiti c’è il mercato, le azioni delle multinazionali, le strette di mano con gli uomini in grigio, il sogno di un figlio di giocare in serie A, magari con la maglia bianconera della Juventus, e pazienza se poi si è dovuto accontentare di qualche minuto di gloria con il Perugia di Serse Cosmi. Gheddafi non è Bin Laden, non ha lo sguardo di un Savonarola islamico o di un Robespierre anti illuminista. Ma come un vecchio attore sulla scena continua a difendere il suo passato. Non può rinnegare il suo nemico. Tutta la sua storia è contro l’Occidente. È con questa lotta che ha conquistato la Libia. È questo odio che gli ha permesso di affacciarsi sul mare della storia. È quasi un paradosso. L’ospite parla e fuori gli studenti dell’Onda buttano bottiglie e vernice sui poliziotti. Gheddafi forse non sa che stanno lì per quell’accordo con Berlusconi contro gli sbarchi clandestini. Gli studenti urlano e il Colonnello non li ascolta. Ma se si parlassero almeno su una cosa sarebbero d’accordo: tutte quelle parole contro l’America. Tutti e due, il berbero e gli studenti, pensano che il mondo in qualche modo debba risarcirli. Tutti e due sono ospiti di un Occidente che non amano, che tradiscono, che odiano. Sono qui e vorrebbero essere altrove.

Tutti e due, per qualche strano motivo, pensano che la libertà di Jefferson e Tocqueville sia fasulla. La vera, gridano loro, è quella della tribù e del deserto. Quella del popolo contro l’individuo. Quella dove i terroristi sono eroi. Liberi di pensare tutto questo. Ma a casa loro.

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