da Ischia
Splendide cinquantenni. Laura Morante, ospite dell'Ischia Global Fest, all'inizio fa catenaccio sul nuovo film di Pupi Avati, Il nascondiglio delle monache, ambientato e realizzato a Davenport, tranquilla cittadina americana. Poi al suo fianco, Treat Williams, altro interprete del film, racconta il proprio ruolo, quello di un misterioso sacerdote e lei, pur con un certo imbarazzo, si scioglie.
Giù le carte, signora Morante. Che ruolo ha in Il nascondiglio delle monache?
«Sono una donna senza nome, chiamata infatti Lei. Arriva in questa cittadina tranquilla , un po' noiosa degli Stati Uniti, barbecue e giardini curati, e all'improvviso si trova ad affrontare una situazione inquietante. Nel film Davenport non appare per quella che è. E nemmeno nella realtà, ad essere sinceri. Ci sono andata per la prima volta mesi fa, accompagnata da mio marito. Sembrava tutto lindo e pulito. Ci hanno subito consigliato di non frequentare un certo quartiere , che loro consideravano malfamato e che per noi era invece una periferia più che decorosa».
Siamo nei dintorni del giallo o dell'horror?
«Del giallo. Ma altro davvero non posso aggiungere se non che è stato appena completato il montaggio del film».
Capito: è il Twin Peaks di Pupi Avati. Tra poco anche lei debutterà alla regia. Cosa l'ha spinta a passare dietro la macchina da presa?
«Nessuna urgenza, se è questo che vuole sapere. A me piace scrivere. Così insieme a Daniele Costantini, il mio ex compagno, ho presentato la sceneggiatura di un film intitolato Ciliegine. Dei produttori francesi hanno detto si. A una condizione: che a dirigere ed interpretare il film fossi io. Sono una vigliacca che fugge le responsabilità, di solito. Ma stavolta ho accettato. Prima o dopo questo film reciterò inoltre in Le Grande Festival, una coproduzione europea, in cui sarò la moglie di Gérard Depardieu che, durante la seconda guerra mondiale cerca di organizzare a tutti i costi una rassegna cinematografica nel proprio Paese».
Come si lavora al fianco di un ex compagno di vita?
«Bene, grazie. Dipende dai rapporti, in fondo. Nel nostro caso, finito l'amore, è rimasta l'amicizia, la stima, la complicità. E poi per fortuna Daniele non ha un forte ego. Ci mettevamo alla scrivania per scrivere e discutere ogni scena e quando non eravamo d'accordo su qualcosa ci confrontavamo serenamente».
Siete i genitori di Eugenia, anche lei attrice. Le dà consigli?
«Più che altro, essendo Eugenia bilingue, sono io a chiedergliene quando devo pronunciare qualche parola francese. Per il resto, cerco di spronarla a mettercela tutta, a non nascondersi all'ambiente, come facevo io ad inizio carriera».
Lei si nascondeva?
«Ma sì, non volevo buttarmi nella mischia. Non ero convinta che quello sarebbe diventato il mio mestiere e dunque avevo una tattica attendistica».
È stato difficile conciliare carriera e maternità?
«Al contrario. Mi sento una privilegiata, perché a differenza di altre donne che lavorano otto ore al giorno poi corrono a casa dai figli e hanno venti giorni di vacanza l'anno io lavoravo quattro mesi e gli altri otto stavo con loro, con i piccoli. L'unica cosa alla quale ho davvero rinunciato è il teatro. Mi piacevano le tournée ma mi avrebbero portata lontana dai miei due figli».
Tra le grandi attrici del nostro cinema lei è una delle poche a non aver ceduto alle sirene televisive.
«In realtà ho fatto tre film tv nella mia carriera. Meglio quelli che del brutto cinema. Però io credo ancora nel fascino della sala, nell'attenzione che lo spettatore ha vedendo un film sul grande schermo, senza interruzioni pubblicitarie. Potendo scegliere, in somma, meglio il cinema».
Cinquantanni, tempo di bilanci.
«È dagli errori che si impara di più. Ne ho compiuti tanti in vita mia ma ne ho fatto tesoro. Per cui non butterei niente. Tranne due o tre film del passato. Ma non mi chieda quali».
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