Gianfranco calpesta i valori della destra

«Quante sono le destre», affermò rispondendo ad una domanda Giuseppe Prezzolini, «sono tre, trentatré o trecentotrentatré?». La battuta arguta, come nel suo stile, è contenuta in uno dei classici del pensiero del grande scrittore, Intervista sulla Destra, che insieme al Manifesto dei conservatori, fissa i contenuti filosofici e politici di quella che affermava essere la «destra che non c’è». Qui Prezzolini esprime un concetto cardine della sua visione della destra conservatrice, quando afferma che il «progressista è l’uomo di domani, ma il conservatore è l’uomo di dopodomani». Fa sorridere la circostanza che nella trasmissione di Fabio Fazio e Roberto Saviano si citi Giuseppe Prezzolini, l’uomo che negli anni Settanta, quando tutta la cultura italiana era appiattita a sinistra, scriveva libri sulla destra ed elogiava il sistema democratico americano perché combatteva in Vietnam contro i comunisti. Prezzolini è stato per cento anni, tanto è vissuto, il campione dell’anticonformismo, un nemico giurato di quello che chiameremmo oggi il «politicamente corretto», a cominciare dalla straordinaria esperienza de La Voce che arruolò giovani intellettuali di rottura delle convenzioni paludate. Furono i vociani, ad esempio, ad inventare il termine «baroni universitari». Saviano è, invece, un campione di conformismo, spesso megafono di affermazioni che non vengono sottoposte ad alcun vaglio critico. Non ha nulla del coraggio dell’andare controcorrente che segnò il fondatore de La Voce.
Prezzolini pagò un prezzo per le sue idee, dopo l’ascesa del fascismo, nonostante fosse amico e benvoluto da Mussolini, emigrò negli Stati Uniti, perché non soffriva il regime, attirandosi le antipatie dei fascisti che lo ritennero un traditore e degli antifascisti che lo giudicavano l’inventore del Duce. Anni dopo, in visita al Quirinale, quando era andato a vivere in Svizzera, esortato dal Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, a tornare in Italia, Prezzolini gli rispose: «Stia tranquillo presidente! In Italia ci vengo tutti i giovedì a comprare la verdura». E aggiunse: «Piuttosto venga lei a farmi visita in Svizzera, visto che è anche più giovane di me di quindici anni».
Più complesso il discorso su Futuro e Libertà: il suo decalogo sulla destra, enunciato nella trasmissione di Fazio e Saviano, da Gianfranco Fini, è palesemente «ispirato» al Manifesto dei Conservatori di Prezzolini. Ma esso non appare assolutamente coerente con il sostrato ideologico che sembra alimentare questa nuova formazione. Alcuni esponenti del Fli anche in vista di inedite alleanze con Vendola e il Pd si sono affrettati ad affermare che per loro le nozioni storico-ideologiche di destra e sinistra sono da ritenersi categorie superate, affermazione rafforzata dall’ipotesi di presentarsi in caso di elezioni anticipate non con lo schieramento di centrodestra ma con Casini e Rutelli. Dunque, proclamano apertamente di non essere più di «destra», perché giudicano superata questa categoria di riferimento. Posizione coerente con la scelta di chiamarsi Futuro e Libertà, perché, se le parole hanno un senso, sono stati del tutto eliminati i riferimenti ai termini destra e nazione, da sempre elementi fondanti del conservatorismo. A ben vedere Futuro e Libertà richiama, nel lessico come nella sostanza, il Partito d’Azione, la formazione politica ispirata a Giustizia e Libertà, nata nell’immediato dopoguerra e destinata a vita breve per un’insanabile frattura tra la corrente liberaldemocratica che finirà nel Pri e quella socialista che approderà all’ala lombardiana del Psi. Come l’azionismo voleva essere un punto di convergenza fra laicismo e comunisti, il Fli punta ad essere il punto di sutura fra post-comunisti e altre correnti della sinistra.
I fillini, impropriamente chiamati futuristi, perché il movimento di Marinetti era un’altra cosa assolutamente diversa, non sono di destra, semplicemente perché, legittimamente, non si sentono tali. Appaiono qualcosa simile al vecchio azionismo con spruzzate di veltronismo benpensante. La nozione politica di destra, in verità, è molto di più di una categoria partitica, essa rappresenta un’ispirazione filosofico culturale che in Italia affonda le radici - come sostenuto da Giovanni Gentile, Augusto Del Noce e anche da Norberto Bobbio - nel realismo politico di Machiavelli e attraverso il Risorgimento e le avanguardie prezzoliniane del primo Novecento incarna la via conservatrice alla modernizzazione. Marcello Veneziani parla opportunamente di un «senso prepolitico». Come tutte le categorie filosofico politiche progredisce, si aggiorna, assume il senso dei tempi ai quali ci riferiamo, ma lascia alla radice una visione del mondo e della vita. Il conservatore prezzoliniano esalta la patria e la religiosità, è decisamente contro il positivismo razionalista, crede nella politica che pone al centro l’uomo soggetto attivo portatore di diritti e di doveri. «Destra», spiega Prezzolini è il luogo dove siedono i conservatori ma vi siedono per idee di cui sono portatori, per una missione storica che vuole salvare il mito dal naufragio dell’utopia.
Di destra, se vogliamo, furono già i greci delle polis che resistettero in nome della libertà degli antichi all’assolutismo dispotico persiano. Chi oggi afferma il superamento delle categorie di destra e sinistra, soprattutto del loro senso storico, mostra la sua fragilità culturale. L’essere di destra ha ancora più senso di fronte all’universo globalizzato del nuovo millennio significa la forza delle radici e dell’identità.

Non è un caso che oggi la risposta conservatrice alla crisi economica globale, dalla Big society di Cameron, al capitalismo sociale della Merkel, all’autonomia gestionale rivendicato dai tea party americani, stia crescendo nella sua credibilità. E nessuno dei nuovi leader da Cameron a Sarkozy disdegna di autodefinirsi di «destra».

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