Milano - Orrore! Un moto di protesta, o slancio di indignazione, o scatto di stizzita irritazione induce Gillo Dorfles a uscire non dal coro, ma dal brusio scordato, il baccano, il fracasso di sottofondo che accompagna con invadente disarmonia «La (in)civiltà del rumore». E una critica d’(in)civiltà - per riprendere la parola double face direttamente dal sottotitolo del suo ultimo libro - è quella che il grande critico d’arte mette a punto, spalancando uno scenario inquietante e una geniale prospettiva di analisi con il concetto chiave di Horror pleni (Castelvecchi, pagg. 326, euro 22). A lui che detesta sentirsi chiamare «il Grande Vecchio» - «non è che un dato anagrafico, un mero stereotipo, la benevola attribuzione di una virtù che non ho meritato» -, che per molti, da molto prima che con l’età sfiorasse il secolo, è solo «il Grande», e che per tutti, da arbitro dell’estetica, interprete di bellezza, maestro d’arte e di raffinatezza è l’uomo più elegante d’Italia chiediamo: il suo «orrore del pieno» è anzitutto un giudizio di (dis)gusto?
«Sì, nasce prima di tutto come una sensazione. E l’impressione che mi ha indotto a formulare il concetto di horror pleni ha origini lontane. Tutto è incominciato nel dopoguerra, con le voci e i suoni striduli delle radioline che si udivano per la strada, nei caffè, che uscivano dalle finestre e dai cortili per invadere l’etere. Era niente in confronto all’attuale saturazione dell’etere, gremito all’inverosimile di messaggi, riempito dal flusso inarrestabile delle comunicazioni: dalla televisione, i computer, la pubblicità. L’effetto è quello del frastuono, del rumore frastornante. Perfino quando è musica quella che si trasmette e si diffonde: nelle segreterie telefoniche, le suonerie dei telefonini, e quelle musichette insopportabili che suonano senza sosta negli spazi pubblici, i bar, i negozi, i ristoranti, i grandi magazzini, perfino nei salotti di gente non proprio comme il faut. Ma non credo che occorra avere una speciale sensibilità, un gusto particolarmente coltivato per provarne noia, per avvertire spontaneamente un senso di ripulsa. Il bombardamento costante di stimolazioni, visive e uditive dovrebbe suscitare fisiologicamente in chiunque una reazione di rifiuto».
Lei parla di una reazione fisiologica, ma anche di una sintomatologia patologica che sembra affliggere la contemporaneità. Se non si ha, come nel suo caso, una coscienza critica, una consapevolezza da critico della situazione, la si subisce e patisce?
«Sì, ma senza soffrire. E non è purtroppo un sano meccanismo di difesa immunitaria, non è un rimedio al male dei tempi, bensì il più grave dei suoi sintomi: quel senso di sordo ottundimento, di cieca indifferenza che rende sensi e intelletto inetti ad accorgersi dei fenomeni che in tutti campi si manifestano con una velocità e in una quantità eccessive. Il caso dell’arte è naturalmente per me esemplare. La gente va ai concerti ma non è capace di ascoltare, si annoia, si addormenta. Va alle mostre e alle esposizioni ma non ha criteri di giudizio, non sa guardare, non si rende conto di quel che vede. L’ottundimento dei sensi alla lunga si aggrava, si fa cronico, si allarga a tutti gli ambiti dell’esperienza. Chi cammina tutti i giorni per la strada non si accorge neanche della nuova pubblicità bellissima - o bruttissima - che gli hanno esposto sotto gli occhi».
Tanto meglio. Ma anche la comunicazione non pubblicitaria fa lo stesso effetto? Ha orrore dell’eccesso di informazioni?
«La civiltà della comunicazione totale conduce a una totale incapacità di distinguere segnali e contenuti o di regolarsi nella loro selezione. La scelta - a tutti gli effetti la “critica” - diventa operazione sommamente difficile. L’aumento di informazione non accresce ma anzi diminuisce il patrimonio del sapere. L’accelerazione e la moltiplicazione di imput e stimoli confonde. Si finisce per avvertire solo la grande emozione, l’impatto delle novità. Colpisce, fa centro, raggiunge l’obbiettivo e lascia un segno solo il messaggio forte, la notizia sensazionale. Sicché per gratificare questo tipo di bisogno o per tenerlo vivo, l’informazione si semplifica e spettacolarizza. Gli esiti estremi di questa tendenza sfiorano una perversione che non esito a definire pornografica. La pornografia di per sé non sarebbe preoccupante. Il guaio è quando degenera nell’approccio morboso, nella smania malata di spogliare e spiare le vite private, anche le proprie o dei propri cari, per mettere a nudo il dolore del proprio padre ammalato - l’ha fatto di recente un grande scrittore americano -, lo spettacolo crudo di un corpo straziato, per esibire l’umana sofferenza senza pudore. Che orrore!».
Meglio che far mostra del male sarà ricercarne le cause. Quali sono quelle dell’Horror pleni da lei diagnosticato?
«Per esempio la sovrapproduzione economica e la sovrappopolazione demografica. Questa ci ha fatto smarrire il senso della persona e il rispetto per l’individuo: che si vorrebbe all’estremo produrre e riprodurre coi criteri sciagurati dell’eugenetica. Quella ci ha fatto smarrire il senso del gusto e del valore delle merci. Il mercato, per sostenersi, ha bisogno di fabbricarne e metterne in vendita sempre di nuove. Oggetti, strumenti e apparecchi invecchiano con grande rapidità, superati dalla mutevolezza delle mode e da un’evoluzione delle tecnologie che spesso è solo un bluff o a sua volta una moda. Ma sono espedienti risaputi dacché esiste il commercio. Il guaio è che questa tendenza coinvolge anche l’arte. La creatività assomiglia sempre più alla produttività. Per sfondare sul mercato artistico e merceologico, è necessario rinnovare continuamente lo stile delle proprie creazioni. Ma sono pure operazioni di marketing che vengono presto assorbite e altrettanto rapidamente dimenticate. L’invenzione dell’artista non ha più il ruolo di un tempo: una volta l’arte determinava sì cambiamenti, rivoluzioni espressive, cambi di direzione del linguaggio. Adesso un qualsiasi Andy Warhol di nuova scoperta è considerato un genio non più che per una stagione. Un “vuoto” maggiore, a costo di suscitare uno storico orrore - l’horror vacui, cioè, che dagli albori della storia indusse a riempire lo spazio di opere creative - restituirebbe ad arte e creatività il loro valore».
E il rimedio, la cura: dove cercarli? Per esempio a Oriente?
«Il rimedio sta nel recupero dell’“intervallo perduto”, come scrivevo in un libro qualche anno fa. La cultura orientale ci offre senz’altro l’esempio di un approccio diverso all’esperienza, anche se bisogna dire che l’Est ormai si sta rapidamente occidentalizzando e il misticismo zen, perseguito in Occidente rischia di essere una mistificazione. Certe esperienze orientali della bellezza però hanno fornito in passato un’idea di armonia imperfetta di grande importanza per l’arte visiva. Per esempio il wabi sabi nipponico ha messo in luce i valori spesso trascurati dei mezzi espressivi adottati dall’arte povera negli anni Ottanta».
Sono già vent’anni. Solo vent’anni fa l’arte ancora sapeva creare cambiamenti di rilievo? Qual è l’ultimo fenomeno notevole di cui ha memoria?
«Posso fare il caso delle pitture murali, l’arte spontanea dei graffiti. Ma è ancora un fenomeno anni Ottanta quello cui alludo: ne colsi la portata visitando New York e osservando sui muri e sui treni dell’underground i disegni stupefacenti degli artisti di strada. Si affermarono allora artisti della statura di Keith Haring o Jean-Michel Basquiat. Poi sono arrivati gli emuli, gli epigoni, i ragazzi che hanno riempito le pareti dei palazzi e le vie cittadine di rumorosi scarabocchi».
In mezzo a questo frastuono il critico come si muove? Un grande critico che passo tiene rispetto al proprio tempo?
«Invecchia rapidamente ed è un cattivo critico colui che non è disposto a cambiare i propri gusti con il tempo.
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