La Gioconda, festa di pubblico L’Arena come Venezia del ’700

Il Festival di Verona inizia con l’opera di Ponchielli. Convince a metà la scenografia di Pizzi

Alberto Cantù

da Verona

Nel 1947, da sconosciuta o quasi, Maria Callas aveva fatto in Arena, con La Gioconda di Amilcare Ponchielli, il suo debutto italiano e nel ’52, iniziata la conquista della Scala, era tornata a Verona ad impersonare la sfortunata, tragica «cantatrice errante»: eroina sacrificale ad oltranza in cui forse il mitico soprano rifletteva la propria vita infelice con un’immedesimazione così forte da farne uno dei ruoli più intensamente riusciti per febbrile inquietudine e, non a caso, più volte affidato al disco.
Venerdì scorso, al debutto dell’83esimo Festival dell’Arena di Verona, il sindaco e presidente della Fondazione, Paolo Zanotto, nel salutare il pubblico con le rituali candeline in mano, ha ricordato la Callas e un’altra grande Gioconda, fedelissima dell’anfiteatro veronese: Ghena Dimitrova, recentemente scomparsa.
Gioconda dunque, opera da arena per caratteri spettacolari di grand-opéra italiano, con cori e balli, grandi masse e impianto spettacolare, è tornata in Arena. Mancava da 18 anni e non per una distrazione di chi progetta i cartelloni ma perché, titolo ieri molto popolare, oggi la si dà col contagocce.
Sono i corsi e ricorsi del gusto (vedi Mefistofele). E anche l’irreversibile venir meno di interpreti la cui personalità sapeva immettere carne e sangue in personaggi di cartapesta e riusciva a rendere credibile una vicenda artificiosa quanto i versi del librettista Arrigo Boito, trionfo, sempre, dell’eccessivo e del macabro. Spesso del comico. E che Gioconda dia, almeno in via preliminare, pollice verso, lo dimostravano le presenze ridotte: 10.000 spettatori in un mega ambiente che ne può accogliere 15.000.
Per il suo settimo appuntamento veronese, Pier Luigi Pizzi porta Venezia dall’ancor florido Seicento della vicenda al crepuscolo settecentesco facendo così una metafora dell’opera, figlia di un’Italia anni Settanta-Ottanta che non sa più, sul fronte del melodramma, che pesci pigliare ed è specchio di una società con gli ideali del Risorgimento alle spalle. Quella che Ponchielli soddisfa usando una ricetta sovraccarica di ingredienti, nelle aspettative di emozioni plateali, da epigono di Verdi e Meyerbeer mentre di lì a poco Puccini, suo allievo, canterà originalmente la crisi della borghesia e del Novecento.
Scenografo e costumista mirabile «con uso di regia» (scontati i movimenti degli assiemi, poco immedesimati i personaggi), Pizzi ricava una Venezia molto anzi troppo stilizzata nei grigi d’inverno, nelle macchie rosse del Carnevale, in un nero gravido di lutti. La Ca’ d’Oro vale la Giudecca, gli interni stanno per gli esterni e viceversa, l’atmosfera notturna e lagunare del secondo quadro è cancellata da un brigantino rosso fuoco che si infiamma d’un incendio tra l’altro fiacco. Le scelte coreografiche di Gheorghe Iancu sono tradizionali e parecchio accademiche come nella «Danza delle Ore» dove peraltro eccellono Roberto Bolle e Letizia Giuliani pur costretti a muoversi in uno spazio sacrificato e in cima ai gradoni.
Il direttore Donato Renzetti gioca la carta dell’eleganza a tutti i costi ma Gioconda è anche opera ad effetto e di effetti e troppa eleganza finisce per stancare. Il coro di Marco Faelli è ben preparato (attenzione però alle voci interne del secondo quadro). Alberto Mastromarino, cui i mezzi non mancano, disegna purtroppo un Barnaba di bieca e troppo veristica perfidia, vocalmente poco ortodosso, mentre Carlo Colombara è un Alvise nobile e fluente. Andrea Gruber, la protagonista, si mostra felice nel registro acuto e nelle parti liriche piuttosto che per zampate drammatiche.

Ingolata e asprigna risulta la Laura di Ildiko Komlosi e di bel colore, attento ai chiaroscuri ma con suoni «spinti» e problemi di intonazione è l’Enzo di Marco Berti. Accurata la Cieca di Elisabetta Fiorillo, con bei momenti davvero. Comunque, un gran successo per tutti. Evidentemente Gioconda fa ancora centro, anche quando la si presenti a scartamento ridotto.

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