Le venti giornate di Torino di Giorgio De Maria è il diamante nero della letteratura italiana. Tagliente e oscuro, potrebbe essere la realizzazione perfetta del perturbante secondo Sigmund Freud. La Torino del romanzo è insieme familiare ed estranea. Confonde le idee, fa girare la testa, genera angoscia. C'è di peggio. Probabilmente, qualcosa di sovrannaturale, inconcepibile come le divinità di H.P. Lovecraft, semina morte e caos. Uomini e donne sono straziati in modo animalesco e abbandonati per le strade. Si odono urla difficili da attribuire a un essere umano. Le statue sembrano prendere vita e proiettare ombre mostruose sui palazzi. Molti torinesi vagano di notte. L'insonnia diventa epidemia. I cittadini, per sfogarsi, scrivono diari spudorati per un nuovo ente, la Biblioteca, capace di creare una rete di contatti tra persone interessate alla vita interiore degli altri. Questo desiderio di mettersi in mostra richiama nella sua essenza la mentalità da social.
Quando inizia il romanzo, tutto questo è già finito. È un detective dilettante a investigare sulle folli venti giornate di una città desiderosa di scordare gli omicidi, la Biblioteca, il disorientamento notturno. Non possiamo rivelare dove condurrà l'indagine. Possiamo però anticipare che è un luogo inafferrabile per la ragione. Anche il nostro detective si sentirà progressivamente inghiottire da una forza oscura che potrebbe sembrare la follia.
Difficile fare paragoni. De Maria è autore che sfugge a ogni categoria. Forse si può accostare a Friedrich Dürrenmatt anche se i racconti dello scrittore svizzero, in Italia, sono usciti nel 1981, dopo la pubblicazione del romanzo di De Maria (1977). È dunque una pura suggestione, buona solo per intendersi. L'irriducibile originalità delle Venti giornate di Torino è motivo della sua fortuna di culto e non di massa. Francamente, sarebbe ora che questo atipico scrittore diventasse patrimonio comune ed entrasse nel canone del Novecento. Pochi lo hanno letto. Ma quei pochi, nessuno escluso, vorrebbero salire sulle barricate per affermarne la evidente grandezza.
Ma chi era Giorgio De Maria? Lo abbiamo chiesto a sua figlia Corallina, che gentilmente ci ha risposto al telefono. Di recente, ha messo in scena, con il Teatro d'ombre, proprio le Venti giornate di Torino. «Mio padre era nato nel 1924 a Torino. Aveva un'enorme passione per la musica. Avrebbe voluto dedicarsi al pianoforte. Ma aveva un dolore, un crampo fortissimo, che gli impediva di suonare. Forse era un dolore inconsciamente autoindotto, psicosomatico. Per questo si dedicò alla scrittura». Era un uomo ben inserito nel mondo culturale? «Sì. Fu molto amico di Elémire Zolla. Si allontanarono l'uno dall'altro quando mio padre manifestò il suo ateismo e il suo comunismo. Partecipò poi al gruppo delle Cantacronache con Italo Calvino. Volevano rinnovare la canzone italiana. Mio padre scrisse diversi brani, spesso sono i più cattivi e sarcastici. Ha collaborato con Umberto Eco, è stato critico teatrale, impiegato alla Fiat, professore di italiano e giornalista. Ha scritto Apocalisse per il Teatro Stabile di Torino. Ha lavorato in Rai. Non era un outsider». I suoi romanzi si concentrano in un decennio circa, I trasgressionisti, altro testo inquietante, è del 1968. Le venti giornate di Torino è del 1977. In mezzo ci sono I dorsi dei bufali (1973) e La morte segreta di Josif Giugasvili (1976). Dopo il 1977, il silenzio, come mai? «Da ateo mangiapreti qual era, divenne fervido credente, una vera conversione. Negli ultimi anni era concentrato sulla vita spirituale ma ebbe anche gravi momenti di sbandamento interiore. Non stava bene. Si sentiva minacciato dalla follia. Beveva e prendeva parecchi psicofarmaci». Nelle Venti giornate si avverte il peso della psicoanalisi. «Papà è stato in analisi molto a lungo. Inoltre aveva un cugino, Bruno De Maria, che era un grande psicanalista. Parlavano moltissimo». Da dove arriva questa Torino magica? «Non frequentava ambienti esoterici, anche se c'era, ad esempio, una forte comunità di seguaci di Gurdjieff alla quale apparteneva anche la sua seconda moglie, Chiaretta. Faceva lunghe camminate per la città, osservando persone e luoghi, soprattutto le statue, che hanno un ruolo così importante nel romanzo».
Anche la storia editoriale del romanzo merita un approfondimento. Ne parliamo al telefono con Giovanni Francesio, direttore editoriale di Neri Pozza, che ora ripropone il romanzo. Proprio Francesio aveva pubblicato Le venti giornate di Torino in Frassinelli, nel 2017, avviando il processo di riscoperta. Arrivato a Neri Pozza, Francesio ha portato con sé anche il libro. «La prima edizione, 1977, è del Formichiere. La riscoperta si deve soprattutto alla passione dell'australiano Roman Glazov, suo traduttore e curatore dell'edizione pubblicata in inglese da Norton. Uscì nel 2017. Io avevo acquisito i diritti nel 2016 su consiglio dell'agente Roberto Santachiara. L'edizione Frassinelli arrivò nel 2017, più o meno in contemporanea con quella Norton». Ma Glazov come venne a conoscenza delle Venti giornate di Torino? «Chiese un libro su Torino a un amico torinese. Che sorprendentemente gli consigliò De Maria». Perché questo romanzo straordinario non è mai entrato nei radar dei critici italiani? «È un libro atipico oggi, figuriamoci nel 1977 quando fu pubblicato nel mezzo degli anni di piombo, quando andava un altro tipo di letteratura, impegnata o di introspezione. Poi certamente ha influito il fatto che l'autore sia sparito a lungo, inghiottito dal malessere. Non credo ci siano troppi paragoni da fare.
Nelle Venti giornate di Torino c'è la forza tragica della vita di De Maria. È questo il punto imprescindibile». E gli altri romanzi? «Ne abbiamo preso i diritti. Li faremo tutti. Non c'è ancora una data precisa ma c'è una forte volontà dell'editore».
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