«L'unica firma che deve riprendere, a tutti i costi, è Aridea Fezzi Price» mi dissero Carlo Laurenzi e Giorgio Zampa quando l'avventura montanelliana della Voce era andata a picco e molti suoi naufraghi culturali cercavano di tornare sulla vecchia ammiraglia del Giornale. Laurenzi e Zampa erano uomini avari di parole come di elogi, ma il loro giudizio faceva il paio con i giudizi di Giorgio Soavi, Piero Buscaroli e Alberto Pasolini Zanelli, ovvero quella piccola, ma significativa parte dell'argenteria di famiglia che dal Giornale non se n'era andata, pensando che fosse meglio avere torto con Vittorio Feltri che ragione con Indro Montanelli, visto che, con i chiari di luna del progressismo all'italiana, il primo si vedeva ora attribuire la patente risaputa e stantia di fascista che era stata fino ad allora appannaggio, appunto, del secondo, improvvisamente divenuto un'icona dell'antifascismo antiberlusconiano.
Chi scrive aveva cominciato a leggere Aridea Fezzi Price (scomparsa pochi giorni fa a Londra, dopo una lunga malattia combattuta con quel misto di nonchalance e di decisionismo che è stata la sua cifra esistenziale) fin dalla fondazione del Giornale, nel 1974, e ne era rimasto rapito. Era la corrispondente culturale da Londra, libri, riviste, mostre, anniversari, interviste e sempre non c'era mai una frase fuori posto, un aggettivo superfluo, un giudizio affrettato, ma al contrario l'esposizione ragionata, il particolare significativo, l'aneddoto interessante, il raffronto pertinente. E poi c'era l'italiano, la lingua italiana, che oggi è un valore fuori corso, come la lira, ma mezzo secolo fa era ancora di conio buono e si capiva subito se si batteva moneta falsa. Quella di Aridea era di una lega purissima.
Quei giudizi positivi così perentori di Laurenzi e Zampa, mi vennero spiegati con dovizia di particolari da Soavi, Buscaroli e Pasolini Zanelli in una delle tante colazioni di lavoro che, ultimo arrivato al Giornale, mi sforzavo di fare con chi, a ragione, ritenevo ne sapesse più di me. Aridea Fezzi Price, mi dissero all'unisono, appartiene a quella categoria di giornalisti culturali, chroniqueur era il termine esatto da loro usato, che ancora esisteva negli anni Cinquanta e Sessanta e che ormai era un genere in via d'estinzione: l'epoca delle Irene Brin, di Elena Canino, di Orsola Nemi: uso di mondo e uso delle lingue straniere, curiosità intellettuale, cultura solida, nessun birignao specialistico né tantomeno mondano, ma un dilettantismo nel senso migliore del termine, amore per la scrittura, una fedeltà al mestiere, fatto non per soldi, ma per passione. Quel giudizio concorde mi colpì ancor più tenuto conto che Soavi, Buscaroli e Pasolini Zanelli non andavano d'accordo su niente e spesso non andavano d'accordo nemmeno con loro stessi...
Così, Aridea Fezzi Price tornò, dopo la parentesi vociana, a scrivere per il Giornale. «Sono andata con Montanelli mi spiegò al nostro primo incontro in redazione, con quella sua voce particolare, acuta e insieme svagata - come si va dietro a un funerale. Non da credente, ma da amica. Glielo dovevo. Però lasciare il Giornale mi è costato. Era casa mia. Mi piacerebbe lo fosse ancora».
E così è stato, fino a quando la salute glielo ha permesso. Nel frattempo, non si è fatta mancare nulla: ha tradotto e introdotto libri importanti di autori importanti, François Fejto, Wyndham Lewis, Wilfred Thesiger, ha collaborato con la Nuova Antologia e con il Viesseux, ha viaggiato molto, si è data allo studio dell'arabo, perché nutriva per il Medio oriente una passione tutta particolare.
Con lei scompare la rappresentante di un giornalismo anch'esso scomparso, quello di quando un po' tutti i quotidiani avevano uffici di corrispondenza all'estero e andando in una capitale straniera sapevi che qualcuno si sarebbe preso cura di te, esistevano ancora gli inviati speciali, le note spese e gli alberghi degni di questo nome e insomma viaggiare per scrivere era un piacere. Durante la sua degenza finale in ospedale si era portata dietro, da rivedere, la traduzione di un libro che sempre chi scrive le aveva affidato, L'alfabeto del viaggiatore, di Steven Runciman, il grande storico delle crociate. «Il fatto che sia stato per tutta la vita di salute cagionevole, ma che abbia vissuto sino quasi a cento anni mi mette di buonumore» mi aveva detto sorridendo.
In uno dei suoi ultimi messaggi mi aveva scritto che ci saremmo sentiti prossimamente al telefono, ma di prima mattina, perché poi la sua voce tendeva ad affievolirsi. «Del resto, anche se sussurro, tu non sei sordo» aveva chiuso ironicamente la sua mail. Non ho avuto cuore di risponderle che, come la nostalgia, anche l'udito non era più quello di un tempo.
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