Per allacciare il passato al futuro non bastano i progetti, ci vuole tanta gratitudine, e non so se ce ne resta ancora tanta. Giro per il centro di Firenze, che poco a poco è diventato uguale al centro di qualsiasi altra città (stesse facce, stessi negozi, stessi panini) e mi domando: c'è ancora qualcuno che abbia non dico le idee, ma quantomeno la voglia di traghettare nel futuro la città d'arte più importante del mondo?
Bisogna essere pazzi d'amore per dedicare anni, decenni a conservare e proteggere qualcosa che uomini diversi da noi concepirono e realizzarono, menti che seguivano cammini a noi in gran parte ignoti e che noi chiamiamo «padri» per la meraviglia non del tutto comprensibile che ci hanno lasciato, e fare poi in modo che questa meraviglia giunga nelle mani e davanti agli occhi dei nostri pronipoti e dei loro pronipoti, che forse leggeranno Dante come un'introduzione a Harry Potter e Giotto come un antesignano della Marvel. Come avrebbe detto Cormac McCarthy: per fare tutto questo occorre avere una promessa nel cuore. Si tratta di capire se questi innamorati esistano ancora, vivi seppure dispersi fra Prada e Panerai, tra Swatch e Intimissimi.
E qui ecco la sorpresa: esistono. Così succede a Firenze. Lo disse a me Mario Luzi: la dai per morta, e invece le sue antiche radici, date chissà quante volte per estinte, continuano a germogliare.
Eccomi in Piazza Santa Croce. Ho ricevuto l'immeritato invito all'inaugurazione della prima fase dei restauri della Cappella Bardi, cuore della grande basilica e punto forse culminante dell'intera opera di Giotto. La piazza può concorrere al titolo di piazza più bella del mondo. Sulla destra palazzi gentilizi, sulla sinistra ciò che resta dei labirinti popolani, dove, a non più di cinquanta metri da dove mi trovo, vide la luce il mio nonno materno. È un viaggio d'arte e di storia, il mio, ma è anche un viaggio dentro la vita. Dovrebbe essere sempre così, se il nome che vai a scoprire è quello di Giotto, o di Michelangelo, o di Brunelleschi: il genio è tale perché trattiene qualcosa di noi, qualcosa di segreto, una domanda, un tormento, e ce lo ributta in faccia non appena cerchiamo di dimenticarlo.
Questa è Firenze. E qui, dove sostò fisicamente San Francesco, e dove nacque la comunità francescana della città, a un'ottantina d'anni dalla visita del Santo cominciò a sorgere quella che è non solo la basilica francescana per eccellenza, ma la basilica italiana per eccellenza. Foscolo vi dedicò il più importante poema civile (e alcuni dei versi più belli) della nostra letteratura, e se la sua attenzione non toccò l'opera del Maestro, ci aveva già pensato Dante - il cui simulacro sosta nei pressi della basilica - mettendosi al suo fianco (Purgatorio, XI) per poi concludere che la nostra gloria non è che «un soffio di vento».
Un vento che dopo più di sette secoli ancora non soffia, quasi che Dio sostasse più del solito tra queste pietre. E chi ama queste pietre non può non amare il mistero (qualunque sia il nome che gli vogliamo dare) che le ha sollevate contro il tempo. Un Giotto anziano, meditante riaccosta qui, tanti anni dopo Assisi, la figura dell'amato Francesco, del quale si sente figlio non soltanto nella vita ma anche nel pensiero, che scava il mondo dei simboli fino al punto in cui l'eterna questione, «che cos'è l'uomo?» si precisa e si rovescia in un'altra, più urgente, ultimativa: «che cos'è un uomo?».
Il cambio d'articolo è determinante: cambia il mondo. Dagli splendidi cori duecenteschi, dagli ori, dalle corone, dai trionfi e dalle maestà (perché è pur vero, Cristo ha già vinto il mondo, la sua non è una promessa) ecco la novità, la più grande di tutte, quella per cui esiste una storia prima di Francesco e una dopo Francesco, così come esiste una pittura prima di Giotto e una dopo di lui.
Con Francesco cambia l'idea stessa della fede, l'idea di cosa sia «salvezza», con lui (pensiamo al presepe di Greccio) impariamo che Dio ci pensa e ci salva uno per uno, uno alla volta ci trae dalla tomba, e per ciascuno sceglie una croce, la sua: unica e dedicata. Cristo ci abbraccia tutti, ci unisce ma non ci confonde, ci guarda uno a uno, a tutti dà del tu. È un clima nuovo, che investe tutta la vita. Bonaventura, francescano (1217-1274) riceve le insegne cardinalizie mentre sta lavando le stoviglie e le fa appendere a un albero senza interrompere il proprio umile lavoro. E il suo gesto diviene subito un'icona.
E l'arte non può non precipitare in questo abisso di sorpresa, che non uniforma ma abbraccia e ama ogni differenza. Ed ecco alberi e case, gesti prima grandiosi e poi piccoli e unici, sfumature, sussulti, sguardi amorosi oppure sgomenti, sguardi di chi capisce e conosce la paura che precede la tenerezza e sguardi di chi non capisce ma aspetta. Eccolo l'Uomo, ossia un uomo più un uomo più un uomo...
Il restauro pone mano non solo all'opera del Maestro ma anche a tutta la storia che ne seguì, che non esclude l'incuria umana e quella della natura, come avvenne nel 1966, quando l'alluvione portò qui non solo cinque metri d'acqua ma anche agenti chimici nuovi e funesti, che seguitarono la loro opera molto dopo il disastro. La conservazione è opera continua, che chiede sacrificio e amore. Nella cartella stampa leggo una parola illuminante: «ritrovare». Si conserva, si restaura per ritrovare. Il Giotto che ho avuto l'onore di vedere è, in questa fase, restituito alla sua purezza, emendato da ogni altro intervento. Nei grandi affreschi si può dire che tutta l'umanità sia rappresentata, tutti i sentimenti, la fede e l'amore ma anche quell'incredulità sorpresa di sé, il sussulto dolorante, la non comprensione. Dio salverà tutti, comunque.
Ma l'uomo si rivela se c'è un avvenimento che ne suscita l'umanità: qui sono i grandi avvenimenti della vita di Francesco a raccogliere intorno a sé tutto l'umano. Ecco i confratelli stretti intorno a Francesco morente ancora giovane (morì a quarantaquattro anni), ecco l'impressionante scena tripartita del drammatico incontro fra il Santo e il sultano Malik al-Kaamil, ecco la spericolata rappresentazione delle Stigmate, con le sue celebri linee rette che pochissimi artisti hanno avuto il coraggio di riproporre (mi viene in mente un Hockney anni '70).
Lo scrittore, il malato di narrazione, guarda meravigliato questi segni, li scruta, li interroga. Se ancora il colore non è pienamente restituito, il genio di chi ha imparato a non disgiungere passione e pensiero, urgenza e pazienza è tutto presente in un racconto pacato che è insieme una somma di precipizi, di sorprese da osservare e meditare una per una. Con Giotto - e soprattutto con questo Giotto finale, estremo - chi guarda un dipinto impara a riconoscervi sé stesso, comincia una tradizione nuova, che chiamiamo Arte Occidentale: un modo di fare arte che implica uno specchio, un riconoscimento, una reciprocità tra l'opera, chi la fa e chi la guarda. Come accade per Dante, nella cui opera siamo presenti tutti. Per questo nessun «fiato di vento» ha dissolto questi due nomi.
Ma a questo proposito conviene concludere con un grazie a chi, innamorato pazzo, ha a cuore un futuro ignoto, ma nel quale Giotto dovrà comunque esistere, sperando che gli educatori di domani traggano dal loro amore il giusto esempio: perché nulla sarebbe triste come l'abbandono del grande genio a un manipolo di specialisti, in mezzo all'indifferenza di quel popolo cui tali opera erano destinate. Chi per quindici anni ha realizzato quest'opera enorme, che sarà visibile nel suo compimento alla metà del 2025, ha impiegato un capitale paragonabile all'acquisto di un appartamento nel semicentro di Milano: questo per dire in che mondo devono operare questi eroi, che sono in gran parte eroine. Voglio ricordare almeno i nomi di chi ha guidato quest'opera: Cristina Acidini (presidente dell'Opera S. Croce), Emanuela Daffra (soprintendente Opificio delle Pietre Dure), Dominique Marzotto Desforges (Presidente dell'Arpai), Maria O.
Scaramuzzi (della Fondazione Cr di Firenze), cui si aggiunge, evocata da tutti più volte, la figura del compianto Marco Ciatti, cui si deve la prima elaborazione del progetto.Pochi conoscono i nomi di queste persone. Fanno parte di quei giusti grazie ai quali si direbbe che Dio continui a rinviare la distruzione del mondo. Firenze inclusa.
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