Ci è stato detto che occorre ricordare perché senza la memoria del passato non c’è futuro. Ma è vero? Quando l’Europa rifiuta di ricordarsi delle sue radici, non vuol ricordare o dimenticare? Ricordare può essere penoso, diventa impossibile quando si tratta della Shoah. Elie Wiesel scrive (Credere e non credere, Giuntina): «Ho raccontato un po’ del mio passato non perché lo conosciate ma perché sappiate che non lo conoscerete mai».
Si prova orrore e si ricorda per anni la scena di un bambino investito da un’auto. Ma cosa si può provare davanti a una cifra come 6 milioni di assassinati? Si può moltiplicare l’orrore che non si è conosciuto per sei milioni di volte?
D’altra parte, cosa sono sei milioni di morti ebrei di fronte agli ottanta e più milioni di morti della Seconda guerra mondiale? I morti non dovrebbero equivalersi dal momento che il sangue ha o dovrebbe avere lo stesso peso specifico, lo stesso colore? Perché, dicono i negazionisti, dare uno statuto mnemonico speciale alla Shoah? Meglio dimenticare. Un modo elegante per farlo è quello di omologare i morti e le cerimonie del ricordo.
«Riconosceteci come vittime del comunismo», chiedono i rappresentanti dei Paesi baltici - che hanno sterminato i loro ebrei senza l’aiuto dei nazisti - con la Dichiarazione di Praga, del giugno 2008. «Siamo vittime del nazismo», proclamano gli austriaci che hanno acclamato l’arrivo di Hitler e hanno eletto un presidente che aveva servito nelle unità speciali naziste. E cosa dire della Spagna che ha esteso il giorno della Memoria dell’Olocausto alla memoria del «genocidio palestinese»? L’insistenza ebraica nel ricordare la Shoah sarebbe dunque frutto di una industria manipolativa giudaica. Il presidente dell’Iran promette allora di ristabilire la verità appena possibile facendo scomparire lo Stato di Israele e i suoi cinque milioni di ebrei. Si denuncia l’invio di 40 medici israeliani a Haiti, come operazione di raccolta di organi umani freschi per alimentare il commercio di organi che l’esercito israeliano ha sviluppato. Hitler è morto ma resta viva l’affermazione del suo ministro dell’informazione: «Una menzogna sufficientemente ripetuta diventa verità».
Meglio dunque lasciare alla storia, che non insegna mai ma registra tutto, il compito di parlare. Lo ha già fatto annotando un fatto curioso. Nessun regime che ha perseguitato gli ebrei è sopravissuto: né quello del Faraone egiziano, né quello greco ellenista, né quello romano, né quello spagnolo, né quello fascista, né quello nazista, né quello sovietico. Non perché chi perseguita gli ebrei è punito. Ma perché la giudeofobia è una specie di cartina di tornasole della salute mentale dei potenti. «Quando si perseguitano gli ebrei - ha detto Martin Luther King - si finisce col perseguitare gli altri». È un segno di pazzia suicida che rivela la corsa dei governanti verso il baratro delle loro illusioni di potenza.
Se per gli ebrei la Shoah è un «affare di famiglia» che non si può dimenticare, per gli altri è una questione da ricordare in quanto malattia epidemica del potere politico impazzito.
È il bisogno di rendersi conto che se la Shoah è un unicum per la maniera in cui è stata pianificata e realizzata, la scomparsa dei regimi, alle volte delle civiltà che hanno visto nell’ebraismo e negli ebrei «il nemico assoluto», un «unicum» non è. Neppure per la civiltà occidentale.Perché dunque ricordare? Dante, che filosemita non era, dà una risposta nel Canto V del Paradiso: «Uomini siate, e non pecore matte, sì che ’l Giudeo di voi tra voi non rida!».
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