Dal governo un liberalismo a senso unico

Egidio Sterpa

Quanto c'è di liberale nell'attuale governo? Domanda pertinente, visto che nel centrosinistra c'è chi cerca di dimostrare che c'è più liberalismo nelle cosiddette «liberalizzazioni» dei decreti Bersani-Visco che nel «colbertismo» di Tremonti.
Sforzi un po' patetici, in verità, perché, ammesso che nei provvedimenti per tassisiti, farmacisti e avvocati, ci sia qualcosa che somiglia alle liberalizzazioni, a smentirli ci pensano la Turco, con il veto ai medici a esercitare extramoenia la libera professione, e lo stesso Padoa-Schioppa, che pure ama definirsi «liberista alla Wimbledon», quando subisce (o accetta volontariamente), il diktat dipietrista sul caso Autostrade-Abertis. Giustificandolo come «difesa della statualità», ma ponendosi contro le norme comunitarie.
Di segnali dirigistici e statalistici ce ne sono fin troppi. Se si scandaglia la maggioranza, di liberali veri non se ne trovano molti.
Giudizi tendenziosi? A confronto non citeremo l'amico Ostellino, liberale dichiarato, che nella sua rubrica Il dubbio sul Corriere, segnala le illiberalità della sinistra di governo. Citeremo invece l'economista Francesco Giavazzi, che non sfoggia milizia liberale ma che, sempre sul Corriere, ha dedicato un editoriale per contestare a Prodi la diserzione dal liberismo ostentato a Bruxelles fino all'immediata vigilia della sua salita a Palazzo Chigi.
Giavazzi cita uno scritto prodiano del marzo 2006 che così recita: «Porteremo lo Stato al ruolo che gli compete in una moderna economia di mercato, quello di regolatore, non di proprietario». Affermazione subito smentita nel programma dell'Unione, dove è sintetizzato: «Il nostro obiettivo è quello di creare un unico centro di responsabilità politica». Come dire: tutto nello Stato, niente fuori dal suo controllo. Altro che liberismo.
A Tremonti la sinistra continua a rimproverare il colbertismo, ma va detto che del famoso ministro del Re Sole egli intese seguire le lezioni mercantilistiche, quelle che favorirono l'industrializzazione della Francia del Seicento. Tutt'altra cosa la politica economica del governo Prodi. Un esempio ce lo fornisce una verifica sugli atti di governo: nelle 160 pagine del Dpef, solo cinque righe sono dedicate alle privatizzazioni.
Non a caso Padoa-Schioppa ha dichiarato in Parlamento che lo Stato non vuole perdere il controllo dell'Enel e perciò non ne metterà più in vendita le azioni. Questo non è statalismo? Basterà aggiungere che già le privatizzazioni risultano condizionate e indebolite dalle golden share volute dai successivi governi.
Una ulteriore testimonianza delle illiberalità di questo governo la offre Ostellino con la domanda, tutt'altro che retorica, «È giusto che le banche informino l'Anagrafe tributaria delle ragioni dei movimenti del denaro sui conti dei cittadini?». Il panorama, come si vede, non lascia dubbi sulla presunta politica liberale del governo Prodi.
Affatto liberali e corretti sono gli addebiti di declino economico e di disastro del bilancio pubblico rivolti al centrodestra. C'è una buona dose di disonestà intellettuale in tali accuse. E ce n'è altrettanta quando al governo Prodi, che è al potere appena dal mese di giugno, si attribuisce sia il merito della crescita del Pil sia quello del boom delle entrate tributarie.

Come si fa a sostenere simili castronerie, quando è elementare che la dinamica, sia per quanto riguarda il fisco, sia per quanto riguarda il Pil, non può che essere di medio-lungo periodo? Difficile accreditare il merito alla politica di Visco, per la quale occorre aspettare qualche tempo per vederne i risultati. Ai governanti, tutti, va raccomandata la serietà.

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