Il governo ordina la fuga: mai più soldati in Irak

Prodi: «Non ce l’avevano con noi, i nostri piani non cambiano». I comunisti: «Via entro un mese»

Laura Cesaretti

da Roma

Sul banco del governo Romano Prodi, al suo fianco Arturo Parisi, i deputati tutti in piedi a rendere omaggio, con un minuto di silenzio seguito da un lungo applauso, ad Alessandro Pibiri, ucciso a Nassirya.
Tocca al premier informare il Parlamento sull’attentato dell’altra sera, e spiegare la linea dell’esecutivo, e Prodi è fermo: «Nulla cambia nei piani di rientro», il terrorismo «non ci farà deflettere dai nostri propositi». Nessuna accelerazione dunque, come invece reclama l’ala sinistra dell’Unione. Più tardi, però, il ministro della Difesa rassicura i pacifisti: «Escludo ogni presenza militare perché è incompatibile con l'impegno preso con gli elettori», risponde Parisi ai cronisti che gli chiedono se un’eventuale «missione civile» in Irak possa prevedere anche una presenza armata: «Il nostro mandato è chiaro, e a quello ci atteniamo».
Il mandato, si sa, è quello di riportare in Italia le truppe oggi in Irak assieme a quelle degli alleati anglo-americani. Che sia «chiaro», però, è un altro paio di maniche, a cominciare dalle scelte nominalistiche che dividono il centrosinistra: i radical continuano a definirlo «ritiro», mentre tutto il blocco riformista, dopo un rapido passaparola, ha decisamente optato per la formula soft «rientro». Il primo, dicono, è stato Massimo D’Alema, gli altri si sono allineati, anche Prodi ieri: ritiro fa pensare a «ritirata» e a truppe di occupazione (d’altronde proprio Prodi le aveva definite così, nel discorso di investitura in Senato, ma ora corregge il tiro), e irrita i militari; rientro è più sfumato e gestibile. Poi ci sono da definire i tempi e i modi: immediato ed entro l’estate, dicono Verdi e Prc, graduale ed «entro il 2006» dice Piero Fassino. E infine c’è la questione Afghanistan, assai «spinosa» come ammette il capogruppo dell’Ulivo Dario Franceschini, con la sinistra pacifista che reclama una «ridefinizione» della missione, dandole un termine temporale, e minaccia di non votarne il finanziamento. Un pasticcio, che oggi (con D’Alema in missione a Nassirya) finirà insieme a conti pubblici e manovra bis sul tavolo di un improvviso vertice di tutti i leader dell’Unione. Ma la speranza è che il voto del decreto Irak vada a finire a luglio, in pieno Dpef e con l’opinione pubblica distratta dalla stretta economica: i pacifisti potranno occultare il loro probabile sì, e l’Ulivo eviterà uno scontro plateale sulla politica estera.
In aula, Prodi rende omaggio ai soldati uccisi, «caduti nel servizio del dovere per la difesa della pace, contro un terrorismo fanatico che non risparmia nessuno». Il presidente del Consiglio chiarisce subito che l'uccisione del giovane Alessandro Pibiri «non avrà nessuna ripercussione sulla tabella di rientro». Il rientro ci sarà, e proprio in queste ore, il governo italiano ne sta parlando con gli alleati. Ma i tempi non saranno anticipati. Esclude poi seccamente che ci sia un piano terroristico per imporre un ritiro ancora più rapido. Si tratta di un'ipotesi «priva di fondamento. Il fatto che i nostri soldati scortassero un convoglio britannico in una zona distante da Nassirya, non costituendo un bersaglio di chiara identificazione, dovrebbe far pensare a un attacco indiscriminato e non diretto in modo specifico al nostro contingente». Nel dibattito, la Cdl schiera i leader Pier Ferdinando Casini e Gianfranco Fini, che affiancano l'ex ministro della Difesa Antonio Martino. «Prodi si ravveda - dice Fini - e dica che si è sbagliato: in Irak le nostre non sono truppe di occupazione ma, come ha detto D'Alema, sono in missione di pace».
«Le forze armate italiane non hanno bisogno di solidarietà con dei se e dei ma, sono un vanto per tutto il Parlamento», incalza Casini, convinto che la missione in Irak sia stata «coerente con il dettato costituzionale». Il più duro è Martino, che accusa la maggioranza di ambiguità: «Dire che siamo truppe di occupazione è falso. Non si può dissipare un patrimonio di cinque anni dandosi alla fuga e gridando “tutti a casa”».

Per l’Ulivo parla Sergio Mattarella: «Non possono essere i terroristi a scandire i tempi delle nostre decisioni». Il segretario Prc Franco Giordano, invece, chiede che il governo «predisponga in tempi rapidi» il ritiro. Che per il Pdci Jacopo Venier deve avvenire per decreto «in un mese al massimo».

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