I REPORTAGE DI FELTRI - I taxi miracolo nella Pechino prima di piazza Tienamen

Il racconto del Paese prima della rivolta di Piazza Tien An Men

I REPORTAGE DI FELTRI - I taxi miracolo nella Pechino prima di piazza Tienamen

Che cosa farai da grande? Il pilota o l'astronauta, risponde prontamente il bambino italiano, che poi crescendo capirà che per far strada è meglio un posto di assessore. Il coetaneo cinese, per quanto più terra terra, non ha gusti diversi, in fondo: anche lui sogna di stringere fra le mani un volante. Non di formula uno, non arriva a tanto. Gli basta sperare in quello di un taxi. Già, l'auto di piazza. È considerata uno status symbol e un mezzo sicuro per far carriera da quando le attività artigianali sono state parzialmente liberalizzate. Per vari motivi. Guidare è stimato esercizio chic e, in un Paese in cui guidano in pochi, dà una sensazione di onnipotenza; significa lavorare in proprio, che in una società collettivistica è un bel privilegio, e guadagnare in proporzione all'impegno. Nessuno stupore quindi se in cima ai desideri di questa gente c'è una piccola cilindrata; fu anche in vetta ai nostri, all'inizio degli anni Sessanta, e per comprarsi una 600 molti di noi firmarono più cambiali che cartoline.

I cinesi hanno un'attenuante: aspirano sì alla vettura, ma col tassametro incorporato che scandisca una rendita tale da giustificare l'investimento. E che razza di investimento: con le paghe che corrono (40mila lire al mese) richiede decenni di risparmi puntigliosi. Ma la soddisfazione è proporzionata al sacrificio: chi riesce a conquistare la quattro ruote e a ottenere la licenza di condurla, poi gode dello stesso prestigio che dalle nostre parti ha un Agnelli o un De Benedetti. E sovente assume tutte le caratteristiche dell'imprenditore, talvolta addirittura del forcaiolo.

Non è un'esagerazione. Accade spesso che sul medesimo taxi, fermo al deposito in attesa di clienti, ci siano due persone. Sapete perché? Quello ai comandi è l'operaio, l'altro, che gli siede accanto, è il padrone della macchina che, non fidandosi di lui, lo controlla: non si sa mai, potrebbe maltrattare il motore o rubacchiare sull'incasso.

Scorrazzare in berlina è una moda per élite. La massa deve accontentarsi della tradizionale bicicletta, su cui è già stato scritto tutto, anche che costa l'equivalente di tre stipendi. Invece, merita una citazione l'ultima trovata dei pedalatori: il sidecar applicato al cannotto, che permette trasferimenti in coppia, sia pure col raddoppio di fatica a carico di colui che sta al manubrio. Esteticamente il carrozzino (di legno compensato) non è apprezzabile, ma è apprezzatissimo dai fidanzatini quale nido d'amore semovente e idoneo, se non altro, per gite in campagna per non dire, alla milanese, in camporella che costituiscono lo svago preferito dai giovani orientali ad onta del puritanesimo che viene attribuito loro.

I luoghi comuni non rendono giustizia a questo popolo, che non è migliore né peggiore di altri.

Prendiamo la musica: siccome Pavarotti è venuto qui qualche tempo fa e gli è stata riservata un'accoglienza trionfale (meritata), di cui i giornali hanno riportato ogni dettaglio, gli italiani sono persuasi che il mondo giallo vada matto esclusivamente per la lirica e affini, che i teatri di Pechino si riempiano solo se rappresentano la «Bohème» e che i garzoni di panettiere (che non esistono, poiché non esistendo il pane è abbastanza naturale che non ci sia chi lo fa né chi lo distribuisce) fischiettino la «Carmen».

Balle. Cioè, è vero che tanto gli intellettuali quanto i subalterni fanno a pugni per accaparrarsi il biglietto d'ingresso nei locali che offrono spettacoli classici, ma è altrettanto vero che mancano locali specializzati in generi che classici non siano. Così come non è una bugia che il motivo nostrano più diffuso è «O sole mio», con buona pace per la Lega Lombarda e la gemella veneta.

Ma è stato sufficiente che tre settimane orsono arrivasse Julio Iglesias per mandare in delirio una folla che, stavolta, si può definire oceanica senza cadere nell'iperbole. Quaranta milioni di persone, più di quante riuscisse a incantarne Mao, almeno in un'unica adunanza, hanno seguito in deliquio sui teleschermi il concerto del piagnone madrileno. E sarebbero state molte di più se i televisori installati nel Paese non fossero che 20 milioni su un miliardo e passa di cittadini.

A proposito di tv, è la nuova passione per soddisfare la quale gli indigeni sono disposti ad indebitarsi. Il tetto dei 20 milioni di apparecchi è stato raggiunto in 4 anni: nel 1984 le antenne, infatti, erano 300mila. E se il boom si è contenuto in queste cifre, è perché il mercato è avaro. Praticamente, per acquistare un modesto diciassette pollici bianconero è necessario iscriversi in una lista di attesa che ha, appunto, tempi orientali: un biennio se va bene. Per tacere dei modelli a colori che sono pressoché introvabili perfino di contrabbando.

Ma che cosa trasmette il monopolio dell'etere di tanto interessante da indurre la massa a far pazzie per impossessarsi del video? Banalità, all'incirca come quelle che vengono propinate a noi; ed è per questo, probabilmente, che ottengono crescente successo.

Non sono ancora state trasmesse le telenovelas, ma si tratta di aver pazienza. Gli Agnes del sito (i Berlusconi per ora non ci sono, ma è poi un guaio?) dispongono di eccellenti succedanei di produzione autarchica: storiacce a sfondo vagamente educativo i cui protagonisti, di regola un ragazzo e una ragazza col contorno delle rispettive famiglie, dopo essersi conosciuti casualmente sul posto di lavoro (l'alternativa è l'università) o nei dintorni, simpatizzano, si innamorano, superano varie traversie di ordine professionale, sociale e sentimentale, e una bambola a chi ha già indovinato si sposano, facendo intuire agli spettatori più dotati di immaginazione che vivranno felici e marxisticamente contenti.

Le reti sono tre, due nazionali e una regionale, che assomiglia alla nostra in una caratteristica: quella di essere vista da pochi intimi. Tutte e tre dedicano ampio spazio all'istruzione: i maestri del filone «non è mai troppo tardi», che insegnano ideogrammi e aritmetica, non si contano.

Ma nei palinsesti non scarseggiano film del luogo (recenti) e d'importazione occidentale (antiquati) né intrattenimenti baudeschi d'arte varia, che mandano in sollucchero casalinghe e pensionati. E in prima serata, spesso, ha accesso lo sport. Il ping-pong, penserete. Macché, pallina e palette appartengono all'archeologia dell'educazione fisica. Oggi vanno la pallacanestro (moderatamente) e il calcio, che è la disciplina se non maggiormente praticata, sicuramente più amata e trasmessa. Nel football, oltretutto, non interviene la censura: le partite internazionali vengono diffuse senza lesina, ma differite per questioni di parsimonia.

Recentemente ho visto Liverpool-Nottingham Forest. E non di rado le squadre italiane hanno il privilegio di essere teleospitate. I pedatori peninsulari sono ritenuti eccellenti in blocco, e uno di essi, benché si sia ritirato, gode di una popolarità non inferiore a quella del Papa: l'indimenticabile Pablito, la cui fama arriva al punto che il sottoscritto, essendo compatriota del centravanti, è stato subito soprannominato dal personale dell'albergo Paulo Lossi. Un'espressione di simpatia nei miei confronti e di illimitata stima verso il tramontato goleador.

La tv, nonostante che sia in ritardo nel rappresentare la realtà esterna, impone le mode. Non solo con i programmi ma anche con la pubblicità, che è racchiusa in specie di Caroselli e mostra i prodigi della tecnica gialla: lavatrici semiautomatiche, aspirapolveri antidiluviani, macchine fotografiche. Cose che i cinesi ormai comprano disinvoltamente; e se avanza loro qualche soldo, lo spendono per acquistare sul mercato clandestino, che si dirama da Hong Kong, videoregistratori e mangianastri. I quali servono per gustare puntate di «Dynasty» e pellicole ovviamente di contrabbando, oltre che per fare scorpacciate di canzoni europee (quelle americane sono detestate), che hanno finito per influenzare gli autori con gli occhi a mandorla, le cui opere di musica leggera, lingua a parte, sono identiche, per ritmo e tonalità, al campionario di Sanremo. Sicché passeggiare per Pechino, se le finestre sono aperte e le radio accese, è all'incirca come fare un giretto alla Bovisa. E non dico a Mergellina, perché la Cina onore al merito non si è ancora piegata alla civiltà della pizza, che comporta arredi e odori peculiari.

La sensazione di trovarsi in una terra amica è rafforzata dal pullulare dei jeans e delle giacchette tipo Facis, che hanno sostituito le brache e la blusa maoiste d'ordinanza e conferiscono alla gente un aspetto perbenino da appuntati in borghese e in libera uscita. Lo stile occidentale sta prevalendo in tutto: Coca Cola come piovesse, minigonne, perfino discoteche (due per gli indigeni e una per i forestieri), insegne scritte in inglese, metropolitana.

Gli uomini sono forse più frivoli delle donne: hanno un debole per le calze di nylon trasparenti e guarnite con ricami laterali, che ho visto ai piedi anche di un viceprimo-ministro, e per le scarpe col tacco rinforzato che regala alla statura tre o quattro centimetri. Questo è il look dei rampanti dopo la strombazzata apertura, della quale però qualcuno non s'è accorto.

Come i vecchietti che nelle bettole rionalpopolari bevono, per indigenza autenticamente cinese, il tè di seconda mano: che i nostri nonni lombardi, avendo fatto lo stesso col caffè, chiamerebbero «reboida» (ribollitura). All'Est, nient'altro di nuovo.

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