«Guadagnavo vendendo calendari ho mollato tutto per il mio teatro»

«Guadagnavo vendendo calendari ho mollato tutto per il mio teatro»

Pina Rando è direttore del Teatro Archivolto che fonda nel 1986 insieme all’inseparabile Giorgio Gallione. Donna di un fascino sottile, ma una iena quando deve difendere il «suo» teatro. Un amore quasi morboso verso questa creatura teatrale che lei ha sperato, voluto e lanciato, possiamo dirlo, verso un pieno successo.
Pina Rando nasce a Genova, in vico Lavagna, famiglia che lavora sodo, è figlia unica. Si sposa nel ’76 con Valter Adami, è mamma di una bellissima figliola di nome Eleonora («Il mio più grande amore»). La lunga conoscenza personale di tanti anni mi autorizza a poterle dare del «tu» in questa lunga chiacchierata, nel cuore del suo teatro, fra poltroncine rosse e tavolini neri, fra manifesti, locandine, sapori antichi di palcoscenico.
Pina Rando i ricordi dell’infanzia... vico Lavagna...
«Di vico Lavagna non ricordo nulla. Inizio a raccontare dalla scuola di corso Firenze e di via Napoli. Era una scuola che stava a metà fra la nobile corso Firenze e la popolosa e popolana via Napoli. In classe tanti compagni, diciamo ricchi, benestanti. Ricordo una voglia matta che avevo di fare amicizia con uno dei ricchi perché loro invitavano a casa dei genitori per delle straordinarie merende a base di Nutella. E speravo sempre di essere invitata. Per me la Nutella era il paradiso».
Poi le medie...
«Al Colombo, l’Istituto molto per bene. Essere in quei banchi era un segno di rispettabilità. Una scuola severa, dove si studiava, devo dire, molto. E poi l’indimenticabile Vittorio Emanuele, dove divenni ragioniera. Erano gli anni Settanta. Anni positivi. Studiavi, ti diplomavi ragioniere ed entravi in banca. Allora i posti di lavoro non mancavano. I compagni di classe al Vittorio Emanuele, erano divisi in due schiere: i figli cosiddetti bene e i capelloni. Dove pensi mi sarei schierata? Naturalmente fra i capelloni. Dove c’era anche il futuro mio marito. Lui in verità aveva i capelli... larghi».
Ma non sei diventata ragioniera in qualche ufficio...
«No, no. Proprio in quegli anni, erano gli ’80, io vendevo calendari pubblicitari a Milano. Guadagnavo un fottio di soldi».
E tuo marito?
«Mio marito, si unì ad un gruppo di “sciamannati” e fondò il primo “Archivolto” della storia. Era un buco in salita Santa Brigida che, inizialmente, era gestito da Eugenio Buonaccorsi (oggi cattedratico) e da Mario Menini (oggi consigliere del Carlo Felice). Lo cedettero a questi “disperati” che iniziarono la loro attività. C’era anche, già allora, la mia amica Carla Peirolero. Io mi trovai in mezzo e dopo qualche tentennamento lasciai i calendari milanesi ed entrai nel gruppo degli “sciamannati”.
Due anni in salita Santa Brigida e poi...
«E poi, finalmente, nell’84/85 arriva Gallione e insieme decidiamo di creare un vero teatro. E così nasce l’Archivolto, quello di oggi. Sono i tempi dei Bronkovitz, di Crozza, della Signoris, di Ugo Dighero. Insomma di coloro che poi divennero famosi. Anni ruggenti. Avevo scoperto il mio vero mestiere, quello che avevo sempre sognato».
Pina Rando, da uno a cento quanto sei oggi soddisfatta di quello che fai?
«Fino a qualche anno fa cento! Oggi molte sono le preoccupazioni, dunque sul piano delle soddisfazioni certamente il massimo, ma i problemi, le angosce organizzative fanno scendere la percentuale. Tuttavia non cambierei mai questo mestiere».
Qual è la cosa che sai fare meglio?
«Cucinare, tenere insieme le persone. Trasmettere la passione del mio mestiere agli altri».
Per una donna è difficile far carriera?
«In genere qualche problema lo abbiamo. Se una donna è brava, se un uomo è bravo, trova sempre più difficoltà una donna. Non ho mai usato l’essere donna come facilitazione per la carriera. Basta uno spirito giusto e la donna va».
Come sono le donne genovesi?
«Le trovo interessanti. Molto riservate forse. Ma dotate anche di intelligenza e professionalità. A cominciare dalla Vincenzi (a parte i soldi che vuole dare solo al Carlo Felice) è donna di livello. Ma come lei ve ne sono molte altre».
Senti, Pina, ti senti una donna di potere?
«Se il potere significa decisioni, scelte, certamente sì. Personalmente ho seguito intensamente il destino del “mio” teatro e sono fortemente soddisfatta. In questo senso ho il potere in mano».
Ti sarebbe piaciuto essere uomo?
«No, proprio no. Penso che la maternità sia il più grande momento della vita. E lo vive solo la donna».
Ti piace il successo?
«Sì, molto. Io ho combattuto molto, sono uscita dalla mediocrità... volevo vincere. E spesso ho vinto. Il successo per me è voler ottenere l’obiettivo che ti sei posto».
Come ti vedi fra dieci anni?
«Sono preoccupata del futuro. Ci penso spesso. Il futuro è sempre più lontano. Il clima che viviamo mi sembra angosciante. Tendo sempre ad allontanare i pensieri grigi. Un po’ di paura c’è. Ecco perché fra dieci anni non so cosa potrà accadere, soprattutto ai nostri figli».
Pensi di essere una donna molto invidiata?
«Qualche volta temo di sì. Le cattiverie non mancano. Ma poi penso che facciano parte del gioco quotidiano della vita».
Cosa ti piace meno di te?
«Uno dei miei difetti è l’impulsività. E poi non ho mai tanta voglia di guardarmi allo specchio. Sono pigra. E poi ho un limite: non riesco a parlare in pubblico. Mi rapporto bene con le singole persone, ma quando devo parlare alla gente no, proprio no...».
Ti rimangono dodici ore di vita. Che fai?
«Dodici ore sono poche. Penso che sistemerei quei quattro soldi che ho e poi solo pensieri per mia figlia».
A tredici anni cosa sognavi di fare?
«L’assistente sociale. C’era già in me qualcosa di... “sinistra”».
Un difetto che non sopporti in una persona.
«L’egoismo. Mi sono sempre chiesta come si fa ad essere egoisti. E poi la stupidità. Ve ne è tanta in giro».
Di che cosa hai paura?
«Sarà strano, ma ho sempre paura di non poter pagare gli stipendi a fine mese. E poi sempre momenti di angoscia per mia figlia... sempre in ansia».
Che rapporto hai con la nostalgia?
«Abbastanza forte. Ripenso al passato, la mia nostalgia è dolce. Perché il mio percorso di vita è stato molto, molto fortunato. Più le soddisfazioni che le delusioni».
Gli amici... Tanti, pochi, quando e dove?
«Ecco l’amicizia è un sentimento forte. Ti devo confessare che i veri amici sono rimasti quelli dei miei vent’anni. Quando mi capita di incontrarne qualcuno, mi sembra di vivere quegli anni. Affascinanti. Poi naturalmente, nella vita di teatro, ho incontrato centinaia di amici, se così si può dire: attori, scrittori, artisti, nomi come Altan, Serra, Benny, Pennac...».
I rapporti col tuo regista Gallione?
«Essendo due caratteri complementari, siamo sempre andati d’accordo: io donna di pancia, lui uomo di testa. Sono 25 anni di collaborazione. Io non ho mai pensato di fare la regista, lui mai di fare l’organizzatore. Nessuna invidia professionale, ma solo grande stima e amicizia ovviamente».
Quanto la politica ti è servita a diventare direttore?
«La politica mi ha sempre affascinato. Indirettamente l’ho sempre vissuta da vicino. Sono naturalmente donna di sinistra, ma ho tanti amici anche di destra».
Ma cosa vuol dire donna di sinistra?
«Onestamente spiegare oggi cosa sia la sinistra mi riesce molto difficile, non so dove si sia sistemata. Un valore soprattutto mi ha affascinato: la solidarietà verso i più deboli. Ecco questa può essere la sinistra».
È vero quello che disse un antico attore che trovare un amico in teatro è come dare la mano a un monco?
«Non credo. Questa invidia tra teatranti era molto più forte una volta. Oggi mi pare questo sentimento si sia attenuato.

Certo vi sono invidie, suscettibilità, ma ci sono ben altri ambienti dove vive questo slogan: politici, medici...».
Sei felice?
«Diciamo che il mio percorso di vita è stato molto pesante, ma non riesce a rendermi infelice».

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