Guardare a Torino come se fosse Detroit

L’azione incalzante di Sergio Marchionne per lo sviluppo del settore auto del gruppo (il progetto «Fabbrica Italia»), con investimenti fino a 20 miliardi di euro, non può non suscitare ammirazione. E così la scelta di alimentare partecipazione per una nuova produttività.
Sono anche comprensibili nervosismi per le lentezze del sistema di relazioni industriali con al centro la questione della Cgil, incapace di esprimere una linea e di contrastare l’estremismo della sua federazione metalmeccanica, la Fiom.
La concorrenza in campo automobilistico è sempre più dura, nel futuro rimarranno solo pochi global competitor. I tempi sono tutto. Da qui le impazienze, persino le forzature (ieri in parte rientrate) di uscire da Federmeccanica (l’associazione degli industriali metalmeccanici di cui fa parte la compagnia torinese) per definire un quadro in cui siano possibili regole contrattuali che consentano i piani di sviluppo dell’auto italiana.
Certo, a proposito di urgenza, non ci si può scordare come la società torinese abbia discusso con i lavoratori e il governo americani sui piani di rilancio della Chrysler sin dagli inizi del 2009. È evidente che Sergio Marchionne voleva avere chiarezza sul quadro globale prima di affrontare il cuore italiano del gruppo: ma comunque i tempi non sono stati tempestivi. Il sindacato dell’auto di Detroit ha ottenuto poi nella gestione della Chrysler, forme avanzate di coinvolgimento dei lavoratori con la presenza nel consiglio di amministrazione e nell’azionariato. È comprensibile che vi sia sfiducia sulla volontà di partecipazione della Fiom Cgil: l’organizzazione che, prima del famoso protocollo, a Pomigliano ha boicottato un piano di grande respiro del Lingotto per riconvertire i lavoratori, svuotando la volontà di partecipazione di Fim Cisl e Uilm.
È anche vero, però, che in Federmeccanica, gli uomini Fiat si erano sempre battuti per un rapporto privilegiato con la Fiom Cgil e hanno dovuto essere messi in minoranza per far passare contratti di lavoro centrati sulla produttività (e non firmati dalla Fiom). Né va scordato che in Confindustria furono proprio quelli del Lingotto a intralciare ogni iniziativa per nuove forme di partecipazione dei lavoratori. Le proposte di Marchionne rappresentano una grande occasione per l’Italia. Certo, però, che il legame tra il nostro Paese e la Fiat è un po’ come quello che connette la Chrysler agli Stati Uniti. Con tutto il rispetto per grandi nazioni come Serbia e Polonia, per i loro laboriosi operai e quadri, quando si discute del futuro della Fiat in Italia si riflette su un nodo della storia nazionale, non solo di mercato.

In generale è utile il suggerimento dato dal ministro Maurizio Sacconi di non affrontare ogni trattativa con strappi. Insomma, è indispensabile che Marchionne si muova con il massimo della velocità, però nelle «forme» non sarebbe male che si comportasse come se Torino fosse un po’ Detroit.

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