"Mandare un messaggio" ma senza creare vittime, sono le priorità che Israele ha annunciato all'indomani dell'attacco da parte di Teheran sabato scorso. Una risposta che tiene sulla graticola da quattro giorni il Medio Oriente e il mondo intero, ma soprattutto l'Iran, alle prese con un'attesa snervante, che è essa stessa una vendetta.
Anche gli Usa all'oscura del come e del quando
Le forze israeliane, assieme al gabinetto di guerra, in queste ore studiano la risposta ragionata e "non di pancia", come è stato ribadito più volte. Quanto all'alleato più stretto, che tuttavia ha preso le distanze da tempo sulle modalità di reazione, anche a Washington si brancola nel buio. Gli Stati Uniti si aspettano che la risposta militare di Israele agli attacchi iraniani di sabato notte sia di portata limitata, un "attacco ristretto e limitato" all'interno dell'Iran.
Supposizioni in assenza di informazioni ufficiali su quali potrebbero essere i piani. "Speriamo che ci diano qualche avvertimento in modo da essere pronti a proteggere il nostro personale, non solo militare ma diplomatico in tutta la regione", avrebbe riferito alla Cnn un funzionario dell'amministrazione. "Ma non c'è alcuna garanzia che ci daranno un avvertimento, e sanno che quando lo faranno probabilmente registreremo nuovamente la nostra obiezione a qualunque cosa stiano per condurre", ha precisato ancora affermando che "ogni ulteriore mossa ora apre una serie di altre possibilità, alcune delle quali sono piuttosto spaventose".
Le due opzioni sul tavolo
Una cosa dunque è certa, nella risposta Tel Aviv sarà sola. Ma quali sono gli obiettivi sensibili in Iran? Si è a lungo parlato dei siti nucleari, orgoglio di Teheran e croce di Israele. Colpirli, la madre di tutte le opzioni. Nulla di futuribile, poichè i piani esistono eccome e impiegherebbero l'uso di squadroni di F-35 (ne abbiamo parlato a proposito della base di Nevatim, nel Negev) pronti a coprire distanze di circa 2000 km. Qui, tuttavia, le opzioni sarebbe due: creare il maggiore effetto scenico, seminando il panico attraverso esplosioni mirate; oppure minare con un attacco chirurgico il programma nucleare iraniano.
In questo secondo caso, Tel Aviv avrebbe bisogno delle bombe "bunker buster", in grado di penetrare nei siti scavati a diverse decine di metri sotto le montagne: armamento che Israele non possiede. Si tratta di ordigni da 15 tonnellate Gbu 57A/B in grado di penetrare nella roccia o nel cemento armato: armi "nucleari" a tutti gli effetti, sebbene non assimilabili agli ordini nucleari in grado di esplodere nell'aria, ma comunque il grado di rilasciare un fallout radioattivo. Qualora si volesse colpire comunque le basi nucleari, ma in maniera più soft, c'è sempre l'opzione cyber attacco: risale al 2009 la "fabbricazione" del virus Stuxnet per infettare i laptop dei ricercatori iraniani, ritardandone ricerche e progressi. Tuttavia, questa opzione potrebbe non necessariamente colpire un sito nucleare (che a qualcuno ricorderà la serie Tehran), ma anche le infrastrutture come industrie, servizi o distributori di carburante, gettando il Paese nel caos.
L'impianto di Fordow nel mirino?
A questo punto, fra i siti papabili, un nome più di altri risuona tra le analisi e le ipotesi: si tratta del sito di Fordow, impianto per l'arricchimento dell'uranio, situato a circa 30 km da Qom in una ex base delle Guardie Rivoluzionarie. Secondo solo all'impianto di Natanz, è salito alla ribalta nel 2009 quando la sua esistenza venne scoperta dalle intelligence occidentali, prima di essere comunicata all'AIEA. Secondo i piani del Jcpoa, l'impianto avrebbe dovuto rallentare il piano di arricchimento dell'uranio per almeno quindici anni, riconvertendosi a sito di ricerca tecnologica e nucleare. Ma così non è stato: l'impianto ha continuato a crescere e svilupparsi dopo la rottura tra Iran e Stati Uniti sull'accordo per il nucleare, proseguendo nell'arricchimento dell'uranio al 5%.
Colpire qui piuttosto che altrove, avrebbe certamente un impatto più che simbolico sul nemico. Si colpirebbe non solo un sito oggetto di disputa internazionale dal 2009, ma stroncherebbe la ricerca e gli studi iraniani in fatto di programma nucleare.
L'impianto venne costruito a 80 m di profondità proprio per far fronte alle ripetute minacce di Israele e un sistema di S-300 lo protegge. La vicinanza alla città santa di Qom, tuttavia, renderebbe l'attacco al sito ancora più rischioso, rischiando di ingenerare non solo incidenti nucleari ma anche di esasperare la risposta iraniana.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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