Negli ultimi vent'anni in Italia, ogni 10 febbraio, si celebra il "Giorno del ricordo", durante il quale si commemorano i morti sul confine orientale italiano alla fine della Seconda guerra mondiale - tra il 1943 e il 1945 - e la successiva emigrazione forzata delle persone di nazionalità e lingua italiana da quelle zone, che comprendevano l'Istria, la Dalmazia e la Venezia Giulia. La data del 10 febbraio venne scelta per celebrare il giorno in cui nel 1947 fu firmato il trattato di pace con cui l'Istria e una parte della Venezia Giulia divennero parte della Jugoslavia. Nel rievocare quegli avvenimenti ci si riferisce spesso alle "foibe", che letteralmente sono cavità naturali molto profonde tipiche dei territori al confine tra Italia, Slovenia e Croazia, al cui fondo di solito si forma quello che viene definito inghiottitoio, cioè una voragine nel terreno attraverso la quale defluiscono le acque che si accumulano nella conca. Queste specie di fosse sono però diventate il simbolo dei massacri di quel periodo, compiuti in larga parte dai partigiani jugoslavi ai danni di persone spesso (ma non solo) legate al fascismo, perché al loro interno furono gettati indistintamente i corpi di molte delle persone uccise.
La storia delle foibe
Dopo essere stati sotto il dominio dell’Impero romano, della Repubblica di Venezia e dell'Impero austro-ungarico, nel 1918 una parte consistente dei territori compresi tra l'Istria e una parte di quella che oggi è la Slovenia passò sotto il dominio italiano, come atto conseguente al trattato di pace della Prima guerra mondiale. Nei territori annessi, il regime fascista cominciò un'estesa opera di assimilazione culturale, spesso usando la violenza per italianizzare i popoli e negare la loro appartenenza a culture diverse da quella italiana. A causa di questa assoggettamento, molte persone del Nord-Est italiano ancora oggi hanno il cognome italianizzato che termina in "ich" al posto dello slavo "ić", e alcune città slovene sono conosciute da noi con il loro nome in italiano (per esempio San Pietro del Carso).
Tutto questo creò una forte tensione che poi si acuì durante la Seconda guerra mondiale, in particolare a partire dal 1941, quando l'esercito nazista tedesco invase la Jugoslavia. Subito dopo l'occupazione, una fetta ancora più estesa di territorio sul fronte orientale passò sotto il controllo dell'Italia fascista. Nel frattempo, già dal 1941, aveva cominciato a formarsi la Resistenza jugoslava guidata dai comunisti del maresciallo Josip Broz - soprannominato Tito - che puntava a riconquistare i territori controllati dagli italiani e a riunire i popoli slavi in un’unica federazione. E così, tra il 1941 e il 1943, il nervosismo che si era accumulato negli anni precedenti culminò in una lunga serie di violenze tra i partigiani slavi e gli occupanti italiani.
La tragedia tra il '43 e il '45
Violenze efferate, omicidi, esecuzioni sommarie e deportazioni - risultato della guerra in corso - erano continui. L'occupazione fascista cercò di reprimere la Resistenza jugoslava in ogni modo: i villaggi venivano distrutti, le donne, gli anziani e i bambini internati nei campi di prigionia, e gli uomini partigiani fucilati. Dopo la firma della resa italiana, annunciata l'8 settembre 1943, la Resistenza jugoslava prese coraggio e si consolidò grazie a nuove adesioni. Il clima di rabbia e il desiderio di vendetta che serpeggiarono tra i "resistenti" portarono a continue violenze e regolamenti di conti. I partigiani slavi in Istria decisero di ordinare l'arresto di centinaia di rappresentanti o collaboratori dell'ex regime, che vennero processati sommariamente e fucilati. I loro corpi furono poi gettati nelle foibe intorno a Pisino, in Istria. Venne calcolato che le persone uccise in questa circostanza furono circa duecento. A questi si aggiungono tutti gli scomparsi e i morti in circostanze a oggi sconosciute ma attribuibili a quelle ritorsioni, arrivando così a circa 400-500 morti: una stima condivisa da quasi tutti gli storici che si sono occupati di questo tema.
Nel 1945, quando il clima da resa dei conti era ancora più intenso rispetto a due anni prima. Nell'Alto Adriatico i partigiani slavi capirono che bisognava muoversi il più velocemente possibile verso ovest per potere pretendere più territori al momento delle trattative. L'esercito jugoslavo arrivò a Trieste già il primo maggio, ma Tito là divenne capo uno stato vero e proprio, con un governo e un esercito. Per rafforzare il potere e il regime comunista che sarebbe nato a breve, decise quindi di procedere con una serie di arresti tra collaborazionisti del nazismo, ex fascisti e oppositori politici, o presunti tali: circa 10mila in tutto. Di questi, circa un migliaio fu ucciso dall'esercito comunista jugoslavo e gettato nelle cosiddette "foibe giuliane", nella Venezia Giulia. In quest'altra fase gli italiani uccisi erano tra i tremila e i quattromila. Molti di questi non morirono nelle foibe, ma nei campi di prigionia dove le condizioni di vita erano ai limiti della sopravvivenza. Furono uccise o imprigionate anche persone che non erano esplicitamente legate al fascismo, ma che erano sospettate di essere potenziali oppositori politici del regime di Tito.
L'imbarazzo nel mondo della sinistra
Dopo la guerra, per alcuni decenni ci fu una grande ritrosia da parte degli ambienti politici e culturali di sinistra a raccontare pubblicamente le vicende del confine orientale: una sorta di "indulgenza" dettata in parte da motivazione storiche e in parte ideologiche nei confronti di atrocità che erano etichettata come "inevitabile" conseguenza di quelle che le avevano precedute, cioè quelle del fascismo. Anche se resta il fatto che moltissime persone uccise in quegli anni non c'entravano niente con il regime del Ventennio. Con la conclusione della Guerra fredda e lo scioglimento del Partito Comunista Italiano, la sinistra dovette fare finalmente i conti con questo imbarazzo e condannare quei drammatici episodi. Anche se non tutti si allinearono fin da subito.
Basti pensare che, quando il "Giorno del ricordo" venne introdotto nel 2004 dal governo Berlusconi, la legge fu votata e condivisa sì anche dai Democratici di sinistra (i precursori del Pd), ma non da Rifondazione comunista.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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