Tra i campioni d’insuccessi lui resta sempre il Massimo

RomaCampione che non vince (e non si cambia).
Fu in un tiepido pomeriggio del 2086 che accadde. Spenta la televisione - diretta da piazza San Giovanni per i festeggiamenti del centocinquantesimo compleanno del presidente del Consiglio in carica - lo stato maggiore del Pddd (Partito Dei Democratici Disperati) prese atto che occorreva guardarsi negli occhi e fare autocritica. Come la tradizione dei fratelli maggiori insegnava. Prese coraggio il segretario, un brav’uomo di Peretola Terme di sotto, e non senza imbarazzo avanzò il tema. «Compagni, ehm, amici... Perché quello che tanti anni fa uno dei nostri più autorevoli esponenti aveva definito la “parentesi di un quindicennio, di cui si vede ormai il declino” dura ancora oggi? Che cosa non ha funzionato? Dove s’è sbagliato?».
Fu un giovane studioso, che sbarcava il lunario nella pompa di benzina di Peretola di Sopra, a suscitare il dibattito. Era appassionato di calcio, aveva studiato sulla riedizione degli album delle Figurine Panini. «Ho letto che quando un giocatore, un allenatore, o comunque una squadra a quei tempi non vinceva, il giocatore finiva in panchina, l’allenatore veniva sostituito, o si faceva un repulisti totale».
Sulle prime, la tesi destò un certo scandalo. Tutti capirono che il giovanotto stava mettendo in discussione l’arte e l’abilità del riconosciuto campione dell’opposizione d’un tempo: D’Alema Massimo, colui che tutti giudicavano di «intelligenza non comune». Ma il giovanotto, per nulla intimorito, proseguì il racconto. «Sissignori, era un campione. Lo riconosco. Intelligenza vivida, brillante, talvolta luciferina. Aveva mangiato pane e politica fin da ragazzo, tranne una volta che gli era scappata una piccola molotov dalle parti di Pisa. Una cavolata, un errore di gioventù. Ma dopo la scalata nel partito, dopo il successo parlamentare - era un portento d’oratoria -, il Nostro riuscì a conquistare in pochi anni, nell’ordine: la direzione del giornale del partito, la segreteria del partito, la presidenza della Commissione bicamerale per le Riforme, la presidenza del Consiglio. Ebbene, questi furono gli esiti: il giornale finì poco dopo per chiudere sommerso dai debiti; il partito cominciò un declino irreversibile, fino a chiudere anch’esso, trasformandosi nel nostro antenato Pd; la Bicamerale fu chiusa anch’essa, senza risultato alcuno; Palazzo Chigi fu perduto poco dopo, senza aver lasciato una traccia che è una, e venendo persino definito, in virtù di affari poco chiari, "l’unica merchant bank dove non si parla inglese"».
L’uditorio fu visibilmente scosso, i mormorii aumentarono. Il ragazzo proseguì: «Il nostro campione, terminata quella partita, da giocatore preferì farsi allenatore. Inventore di tante tattiche, non ne imbroccò una vincente. Finì intercettato mentre si complimentava per la scalata di una banca, forse con sua moglie: "sììì, Consorte, facci sognare...". Quando al governo tornarono i suoi nemici principali, un Romano e un Walter, li infilzò come birilli. Quando Walter, che era solo a lui secondo, lasciò soltanto macerie, il Nostro fece nominare al suo posto un brav’uomo che teneva in pugno. Poi cercò di sedurre il governo di centrodestra per diventare ministro degli Esteri dell’Unione europea. Ma non lo vollero, preferendogli una baronessa inglese per la quale il "diplomatico" era un pasticcino da tè. Non contento del fiasco, mentre la sinistra era in totale rotta, forse per gelosia, cercò di affondare l’unico leaderino capace ancora di vincere grazie al carisma personale, nella sua terra di Puglia. Il leaderino, che si chiamava Nichi e aveva studiato il soviet proprio nella sua Fgci, non gliela diede vinta e sconfisse sonoramente il sicario inviato dal Campione. E lui, che nel frattempo aveva imbottito la giunta pugliese di sodali con i quali andava a cena, li vide senza batter ciglio finire in galera per complesse attività legate a sanità, tangenti e mignotte. Con il placet del governo, finì al Comitato di controllo sui servizi segreti: posto che ne dovette esaltare le doti tattiche e la verve sarcastica. Tanto che ciò che diceva divenne sempre più velenoso, ma incomprensibili ai più».


Il silenzio piombò sulla sala, che per decenni aveva imprecato contro la malasorte. D’un tratto capirono che forse, fin dall’inizio, sarebbe bastato non seguire il «campione», senza aspettarne il declino. Facendo bene i conti, non era mai stato il massimo.

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